“Ye Olde Wood”

barling pretBarling’s Make “Ye Olde Wood” T.V.F. 408 EL (pre-transition)

Il guaio di fumare nella pipa, ma anche l’intrinseco stimolo che si cela dietro questa attività, è quello di non essere solo un vizio. Se così non fosse, sarebbe tutto molto più semplice. Alle pipe ci si affeziona, entrano per necessità ― e talvolta per elezione ― nelle proprie vicende personali, le accompagnano, financo a trasmutarle come solo un oggetto della più tortuosa quotidianità sa fare. Per colui che scrive, queste, ― e in special modo nei periodi più ardui ― hanno il grande merito di regalare quel pizzico di divertimento partorendo saporiti momenti a nutrimento del proprio spirito ludico. Allorché le si gira e rigira tra le mani, mentre scorre l’alternarsi di prospettive, il gioco di luci e ombre : questo comparire di dipinti ― dagli arabeschi del cross grain ai verticali parallelismi dello straight grain ― mi rammenta soventemente che la sensibilità non è (solo) una croce da portare lungo il calvario dell’esistenza, ma anche una peculiarità deliziosamente coscienziosa che permette di assaporare piccolezze destinate altrimenti a rimanere semioticamente mute.
E tutta questa sottigliezza visiva e concettuale è la migliore cornice entro la quale presentare questa Dublin.

Il nome della famiglia Barling non è sconosciuto ― per forza di cose ― all’amante della pipa in generale, se poi si è tra quei fumatori che hanno piacere nel ritrovarsi tra le mani qualcuna di quelle vecchie glorie “made in England“, ecco allora che ritrovarsi per le mani una Barling pre-transition ― razza di pipe che le voci di corridoio che corrono tra gli appassionati ritengono eccezionali ― è indubbiamente una grande soddisfazione, specie se il tubo in questione ci perviene in condizioni eccezionali, giacché senza dubbio si parla di una manifestazione di un’altra epoca.
La pipa che si vede in foto oltretutto ― e almeno per le corde fatte vibrare al sottoscritto ― non esaurisce la sua corsa sul traguardo della rarità e dell’eccezionalità produttiva, e neanche su quello delle soddisfazioni filologiche ― materialmente tangibili ― che una pipa del genere può offrire, conto tenuto che si tratta di un importante tassello del grande puzzle storico annoverante la sublime ricerca della qualità unita alla spietata concorrenza in cui le più importanti casate angliche si trovavano (ai tempi) grandemente impegnate.

Come detto, si tratta di una Dublin (shape 408) leggerissimamente canted, quanto basta a renderla elegantissima ― sans doute con la complicità del cannello schiacciato che ho imparato ad apprezzare grazie ad una realizzazione in quel di Radice. In aggiunta ― e per nulla in secondo piano ― la qualità dell’ebanite non ha nulla da invidiare alla serafica realizzazione in materia di stems presso Dunhill : nonostante la lucidatura a motore effettuata negli anni (non parliamo di una “giovanotta”…), l’originalità del bocchino è testimoniata da alcune lettere superstiti chiaramente disposte a croce, e il dubbio ― che è sempre legittimo ― è così fugato e a proprio sostegno vi è l’opera di carteggiatura che ha dato garanzia di un materiale di indubbia qualità, resistenza e durezza : ulteriore elemento che lascia spontaneamente gioire.
Ma la gioia, se mi è concesso di definirla tale, non arresta la sua trionfale marcia giunta a questo punto. L’essenza della radica, la perfezione delle linee della testa, il taglio che mette in mostra su entrambe le guance un occhio di pernice stratosferico, che non era raro sulle (non troppo) modeste punzonature Ye Olde Wood ― lisce in finitura scura ―, ma che su questo esemplare è evocativamente barocco.

La pipa è in funzione ― dal dì che me la sono ritrovata tra le mani ― da molto poco, poiché si aveva la necessità di farla asciugare per bene dai vapori dell’alcool (alimentare…) con il quale ho passato gli interni, soprattutto cannello e foratura. Le sue dimensioni ― indicate con la stampigliatura EL ― la rendono, tenendo conto dello shape, una gruppo 3 abbondante in termini Dunhill, il che ne fa la misura a cui chi scrive è più affezionato. Sarebbe difficile descriverne la bontà, appena occultata e in via di emersione nel frattempo che i fantasmini (poca cosa…) delle passate fumate abbandonano la radica. Ed è proprio giunti a questo punto che si comincia a sorridere per davvero, ovvero quando la miscela al 50/50 di Golden Glow (SG) e Cimette (Mastro Tornabuoni) si apre come un fiore alle prime luci della primavera, quando il legno comincia a prendere ― distintamente e senza colpo ferire ― gli aromi che preferisco; quando insieme alla partenza dei vecchi spettri, fa la sua comparsa quel famoso spettro che si aggira ― e per giove non a torto! ― presso le paludi psicologiche degli appassionati di questi strumenti : quello della fama della superlativa bontà della radica air cured di una vecchia Barling.

stampigliature

Il soapy della memoria

Deer-Hunter

Ai tempi in cui vidi per la prima volta «The Deer Hunter» di Michael Cimino ne rimasi positivamente frastornato. Molti tengono in considerazione tale film — taluni anche polemicamente — per le scene che restituiscono la crudezza e l’ignoto della propria sorte concretizzate dal buon Cimino con le immagini che descrivono dei frammenti della guerra in Vietnam. Sebbene questo aspetto per chi scrive non sia affatto secondario — prima di vedere questo film non avevo idea di cosa potesse essere la «roulette russa» (l’ho visto abbastanza presto) — ciò che ho amato sin dalla prima visione (e non saprei dire quante volte lo abbia rivisto ancora) sono le gioiose e conviviali scene iniziali che introducono il terribile destino di una comitiva di immigrati russi e scherzosi americani della Pennsylvania. Sin da giovanotto, nei film, guardavo con curiosità alcuni dettagli. Tra questi, le automobili dei protagonisti, i completi, le cravatte, gli smoking. E poi le scene che ti rimangono impresse, quelle segnate dalla musica, quelle in cui i protagonisti cantano e sono tutt’uno con la traccia sovraimpressa : nella mia immaginazione di tredicenne, da grande, avrei di certo cantato il ritornello di «Can’t Take My Eyes off You» — quell’irresistibile «I love you baby!» — giocando a biliardo in compagnia. Avrei scoperto più tardi che la realtà è ben diversa dalla bellezza cinematografica, che la maggior parte della gente gioca a biliardo in modo del tutto funereo : all’occasione — ormai più unica che rara — mi ripeto da anni che certamente non hanno mai visto «Il Cacciatore».
Con gli anni, in tanti scambi di opinioni, non ho mai fatto mistero che le scene preferite dal vostro siano quelle della “prima parte” del film, prima dell’atterraggio dei protagonisti in Vietnam. Per chi scrive, gran parte del capolavoro di Cimino è contenuto nelle scene di amicizia — non sempre “facile” — di quella comitiva di operai negli USA : scalcagnati, casinisti, tragici nella loro postura goliardica.
Se già tredicenne fui affascinato da tutto quello che Cimino — e i purosangue che formano il cast — aveva rappresentato sin nei dettagli, l’atmosfera de «Il Cacciatore» nei suoi lati più festosi non mi era del tutto estranea, così come non mi erano estranei alcuni dettagli — gli abiti, in primis — che anche se ad indossarli non era il vostro, in quanto ragazzino (un paio di pantaloni e un maglione ai tempi andavano più che bene…) ne aveva visti parecchi nell’alternarsi dei “Natali”, delle “Pasque”, dei matrimoni (come nel film…), dei battesimi e così via. E di questi ne avevo invidia, ma ne possedevo anche la consolante prospettiva che quando sarei cresciuto ne avrei avuti di miei. Ora, i personaggi che affollavano le feste di famiglia non sono mai stati ospiti “raffinati”, ma piuttosto nella media. Alcuni goliardici — ed anche vagamente somiglianti a quelli del capolavoro di Cimino — altri certamente più seri, ma erano comunque quasi tutti, più o meno, degli operai vestiti a festa — anche questo come nel film di Cimino. Questo particolare, che poi donava la loro vera personalità a quegli abiti, non l’ho mai dimenticato e ancora oggi è un mio pallino. Non mi intendo di moda, anzi, della cosiddetta «moda» non ne capisco nulla. Come mio padre, come mio nonno, come mio zio e come altri, mi basta sapere che in alcune occasioni “serie” (anche se si fa “casino”) basta un completo scuro, sobrio e meglio se nero. La mia prima volta, quando poco più che maggiorenne mi ritrovai ad una festa che non contemplava solo la presenza di ragazzi — ma anche di molti famigliari del festeggiato — riuscii a strappare a mio padre un suo completo che da tempo mi piaceva vederglielo addosso, e dato che le occasioni per indossarlo non erano poi molte, e il completo aveva ancora vita molto breve, sembrava fosse stato comprato per me, per quell’occasione. Le taglie, certamente, erano sovrapponibili e ancora oggi che di anni ne ho una decina in più, qualcosa di mio e qualcosa di suo va e viene. Quando poco tempo fa, quel completo grigio della mia prima volta saltò di nuovo fuori — moderno perché classico nella sua semplicità — e me lo ritrovai addosso, come allora con la stessa reverenza verso quello che è “il completo grigio” (poiché è l’unico di tale colore nel mio armadio…), la mente ha partorito tutta la pletora di ricordi che in questo momento sto mettendo per iscritto. Ma se la memoria visiva, che ha parlato fino ad adesso, risulta essere necessaria, ma non sufficiente, tali ricordi hanno come cornice un odore, ovvero l’odore che tutti quegli uomini vestiti a festa emanavano e che di quegli abiti ne era la fragranza : quella feroce dell’acqua di Colonia, il must olfattivo delle feste in famiglia e/o casalinghe. La usa, ovviamente, anche il sottoscritto, forse in maniera più moderata dei miei parenti, ma la usa con soddisfazione. Di quella soddisfazione che sola sa giustificare la memoria dei tempi che furono, anche se limata da un’acqua di Colonia di qualità migliore — forse — di quella che usava ai tempi la moltitudine dei mie famigliari maschi.
Quando i Gawith Hoggarth &co. toccarono suolo italiano, il vostro era preso da alcuni dilemmi, piaceri, e costernazioni. Il vecchio Forte non si trovava più — fui fortunato a trovarne delle stecche invendute —, con le miscele inglesi incominciavo a litigare e il Lakeland di Samuel Gawith era un tuttogiorno.
Tutto ebbe inizio recandomi in tabaccheria per acquistare i miei Samuel Gawith preferiti. Al che, conoscendo la mia propensione per il Lakeland, il gestore mi mise al corrente di avere finalmente disponibili i G&H. Inizialmente, a parte la curiosità — per altro abbastanza limitata del sottoscritto — non avevo dato molto peso all’arrivo dei trinciati di quella che per me è — forse — la migliore casata produttrice di tabacco da pipa (ormai fusasi con Samuel Gawith). Come si metterebbe una carota sotto il naso di un cavallo, il gestore fece con il vostro utilizzando una latta di Dark Flake. Mi disse di odorare. Quel profumo — che ricollegai subito all’acqua di Colonia delle feste — mi portò indietro di anni. Quel giorno nacque il mio amore per i G&H. Per il Dark Flake, per il Dark Birds Eye (aromaticamente meno forte del primo…), per l’Ennerdale (un signor soapy). Nella profumazione tipica della casata, nella maniera con la quale innaffiano i soapy, nelle mille sfumature di kendal scent ho avuto la possibilità di tornare indietro con la memoria, alle belle immagini delle famiglie unite, con gli uomini che bevono i loro drink preferiti — in casa sua mio nonno utilizzava, in tali occasioni (e non solo…) apparecchiare un tavolino con tutto quello che di alcolicamente buono vi potesse essere — e le mogli a proferire parole di rimprovero (invero del tutto inascoltate dalla controparte) circa il non esagerare (almeno) prima di sedersi a tavola. Un’altra di quelle immagini fisse e impresse a fuoco nella mia mente.
La memoria, le immagini di convivialità, sono sempre immagini che mi restituiscono tanto le feste invernali che quelle estive. Le une dentro casa, nelle “salette” in cui l’odore dell’acqua di Colonia mi inebriava pesantemente. Le altre all’esterno, in cui quell’odore si mesciava ad altro, a quello delle piante del giardino, dei gerani sulle balaustre, delle piante di limoni, della pergola.
Del Dark Flake e del Dark Birds Eye ho parlato a suo tempo. Dell’Ennerdale ne scrivo per la prima volta, non avendone mai trattato prima e i motivi che mi hanno spinto a non trattarne fino ad oggi sono proprio quelli che trovano giustificazione in questo nuovo articolo. L’Ennerdale, per chi scrive, non è solo un soapy composto (al più dell’80%) di un Virginia tra i migliori al mondo, non è solo una latta da cinquanta grammi con cui si esce dalla tabaccheria : è come il proiettore di un vecchio cinema che spara sullo schermo immagini di un tempo passato, di persone che, tra queste, alcune sono ormai solo bei ricordi. Come del resto fanno parte di questa memoria i mille profumi che questo sprigiona. Parlare di questo soapy made in G&H, in termini canonici, come detto mi è impossibile. Potrei dire solo che è buono, che come un soapy che si rispetti annovera tutta la pletora dell’aromatizzazione all’inglese, che l’aroma floreale, di geranio, e di “sapone”, come dicono certi, mi è diventato con il tempo insostituibile. Il resto è tempo perso, poiché il proprio circo aromatico mi riporta a tutto il mix dei profumi e degli odori che sanno, e possono vivere, solo a livello inconscio. La prima volta che lo acquistai, già convinto del Dark Flake, scoprii un flake delizioso. Senza se e senza ma. Me ne “impipai” altamente della diabolica natura impestante che si ritiene che abbia — e non proprio a torto. E dopo il primo giro di prova in una pipa di pannocchia — tanto per tener fede allo scrupolo del moderno fumatore che legge su internet — mi persuasi a caricarlo in una Dunhill Shell 3103 che da poco avevo acquistato, nuova e lucida, tirata a festa. Nera come gli smoking ne «Il Cacciatore». Semplice e pulita, classica come i vestiti dei miei parenti nei giorni di festa. Fumarci in tal senso è il mio personalissimo omaggio agli abiti del matrimonio di uno dei film più belli che sia mai stato girato, un omaggio alla memoria degli uomini della mia famiglia nelle loro giacche nere o grigio scuro, con l’immancabile drink in mano. Un omaggio ai profumi dell’acqua di Colonia che mi permettono di ricordare all’istante i momenti di festa. Il mio modo per omaggiare quel genere di serietà festosa e quello di manifestare distacco verso gli orrendi costumi delle nuove leve, che menano incuranti l’assalto alla festa famigliare sciamando con il cellulare in mano al ritmo della (mal)tollerata sconcezza della musica trap. Il mio modo di rivivere un altro tempo, scandito da quella mescolanza di Virginia e di Burley irrigata all’inglese che fanno dell’Ennerdale il best of dei tabacchi della memoria. La mia occasione per continuare ad ammirare le immagini che pur con il passare del tempo non si vanno sbiadendo. A tenerle vivide mi basta una carica di Ennerdale, o al limite, di qualche altro contenitore di kendal scent, una Shell tirata a lucido con un qualsiasi panno pensato per tale scopo. La bellezza malinconica di poter tornare ragazzino in mezzo ai completi animati, alle cravatte e ai farfallini. La statura per poter tornare a guardare dal basso i bicchieri, il loro dondolare e luccicare. Per sentire ancora le mani che mi scompigliano i capelli, che con il tempo stanno diventando come quelli di John Cazale. Per ritrovarmi nei miei ricordi, e per farci cantare sopra, come ne «Il Cacciatore», niente di meno che Frankie Valli. Altra hit però, di qualche anno dopo, e non con la stessa verve di quell’irresistibile «I love you baby!». Più mansueta, più dolce, più malinconica. Quella che fa : «So close, so close and yet so far…».

Autunnale : St James Flake

stjames

Dopo aver trattato — all’attento lettore giudicarne il carattere esaustivo o meno — dell’insieme dei Virginia a cui maggiormente sono affezionato, mi rendo conto che, nell’aver percorso la strada per conto mio, nelle solitudini sideree di un certo modo di fumare nella pipa, mi ero perso il «concetto» adombrato da quel «The Kendal Mayor’s Collection» che occhieggia sulle latte di tale collezione, e che anche ad un amante del «Sam’s Flake» come il sottoscritto è spesso sfuggito. Credo di non asserire una scemenza se dicessi che a fronte della più tradizionale ispirazione gawithiana in fatto di Virginia flake la collection in questione rappresenti un’innovativa deviazione divenuta tuttavia un classico indiscusso. Nella mia piccola esperienza — che potrebbe tranquillamente anche tacere — questa deviazione ha incominciato a ritagliarsi nei tempi più recenti uno spazio sempre più vasto, tanto da offuscare le delizie più tradizionali delle referenze S. Gawith in campo dei Virginia più canonici. Gnoseologicamente parlando, fumare un flake di Virginia canonico, «classico», è qualcosa che ha a che vedere con la permanenza al di sopra di una certa soglia della tecnica : al di sopra, cioè, di quella minima saldatura di elementi che riguardano l’equilibrio nella carica e nella gestione di essa, quel bilanciamento costante tra accensione e riaccensione, ritmo delle tirate e utilizzo misurato del pigino. Per averne reale e completa conoscenza, l’improvvisazione è abbastanza sconsigliata. Apprestarsi a fumare una carica di Best Brown o di Full Virginia Flake con la foga, la disattenzione, la faciloneria che talvolta diventa comune al fumatore abituato, non paga quanto una fumata che ha come proprio leitmotiv l’intenzione di tirare fuori dalle pallocche di flake «impipate» tutto quello che sono capaci di concedere. Se tale è il motivo ultimo della fumata, se dipanare ogni matassa di ciò che si tiene acceso nel fornello è il fine ultimo e la condicio sine qua non del momento ritagliato al piacere, l’accostarsi cosapevolmente al segmento temporale dedicato al Virginia stricto sensu necessita di far propri i postulati di cui sopra. O almeno così la pensa il sottoscritto. Per accingersi in maniera meno totalitaria ad una buona fumata a base di Virginia in formato flake vi è necessità di condimento : la presenza di questo — comunque mai in dosi sovraccaricanti — rappresenta una piccola variazione sul tema tale da far sottilmente deviare — anche se in porzioni limitate — il sistema gnoseologico di colui che si accosta al consumo consapevole del Virginia in flake. Il condimento rappresenta un’iniezione minima di facilità, una dose non in assoluto destrutturante dell’impalcatura descritta, ma comunque distensiva, capace di scioglierne la rigidità senza stravorgerla nel suo complesso. Concettualmente avviene una mutazione che pur facendoci permanere entro una stessa forma, ne modifica il contenuto, con il risultato che tra forma e contenuto originario penetra un elemento che a questi regala espressioni diverse, più facili, meno standardizzate. Il St. James Flake è fuor di ogni dubbio — o almeno dei miei — una versione del migliore confezionamento Gawith in fatto di Virginia che pare fatto apposta per le ex-colonie : l’aggiunta del Perique a delle componenti prossime al Best Brown o al Full — magari ipotizzando un ibrido di questi, non saprei con esattezza restituisce un raffinatissimo flake che funziona, per così dire, tanto nell’Inghilterra nord-occidentale che a Saint Louis. Nonostante l’ispirazione sia vagamente americana, il St.James mantiene tutte le caratteristiche di un prodotto conservatore. Si può fare — e questa è in tal caso la grande capacità della Samuel Gawith — un flake di Virginia contaminandolo con un elemento nuovo senza perdere la propria tradizionale essenza. Tutto ciò che essenzialmente Samuel Gawith sta a significare vi è integralmente riportato. Perique o meno, è un Virginia flake SG, ma con tale contaminazione ne esce qualcosa di diversamente classico : è qualcosa di già assaporato, di già conosciuto, ma inedito al tempo stesso. Inedito nella semplicità con la quale lascia schiudere il proprio germoglio aromatico, inedito nella chiarezza con la quale i sapori si lasciano distinguere, privo di quelle esoteriche sacche che presentano i fratelli incontaminati. Il concetto che sta dietro alla «Kendal Mayor’s Collection» è troppo ampio per ridursi al St. James e ancora  insondabile se ci si arresta a questi e al Sam’s. Ma del St. James basta dire che altro non è se non la magnifica conoscenza Gawith in materia dei Virginia e la altrettanto indiscutibile sapienza della casata in campo di precisione ed equilibrio delle componenti. Se lo avete già provato, sapete a cosa faccio riferimento. In caso contrario, si tratta di Virginia e Perique, ma pensati da cervelli platonici. Come che sia, ciò di cui il sottoscritto può avere massima certezza, è la dose di appagamento che mi sta regalando come mio ultimo spasso autunnale.

Peccati rustici

long-castello blog
Il peccato che si consuma in una Castello “Castello” KK …

«Il piacere è peccato e il peccato è un piacere»

Byron

Per quanto fumare il toscano nel fornello della pipa possa apparire come una pratica «barbara», in special modo quando si hanno a disposizione prodotti di eccellenza come il «Mastro Tornabuoni Long» nella foto, o quel che che ne resta di una delizia dal ripieno long filler che a parere di chi scrive è una sorta di materializzazione in materia di sigaro toscano di ciò che il vecchio Platone attribuiva presente nell’Iperuranio, e per quanto la complessità degli aromi viene fatalmente disfatta con l’operazione — questa si un poco «mongola»— dello sbriciolamento a mano, chi scrive — forse come lo era per il vecchio Attila il desiderio flagellatore — è un qualcosa che trova irresistibile. Se colui che legge — veneratore della sacralità del bitroncoconico — dovesse trovare tale pratica pregna dell’atmosfera che è possibile immaginare durante la caduta di Aquileia e giungesse ad accusare tale operazione di flagellum Dei, e tutti coloro che la praticano dei mezzi cannibali, potrebbe trovare senza dubbio da parte di chi scrive umana comprensione. Se della pipa e del suo fumare il sottoscritto ne ha fatto umilmente materia di cui scrivere, ragionare, sperimentare quel poco che gli è spiritualmente concesso — che in fin dei conti in tema di usi pipici è piuttosto reazionario, almeno quanto un Kaiser a vostra scelta… — del toscano «developed in CTS» ne ha fatto da lungo tempo un piacere quotidiano, o quasi. Abbandonarsi ad un intero Long — del resto più che ottimo anche ammezzato rappresenta nelle fumate di chi scrive un piacere unico, luminoso quanto poteva esserlo una danza dionisica, benché disfarsi delle sirene della barbarie di cui appena sopra — non tutti hanno la fortuna di scongiurare il pericolo facendosi legare da qualche parte — gli rimane operazione piuttosto complicata. Se piace il Kentucky italiano nella pipa, se le cimette anch’esse prodotte in casa CTS sono riuscite nell’intento di smuovere qualcosa nella coscienza di colui che fuma, se i rustici piaceri di una fumata scomposta e spigolosa giungono ad essere percepiti come tali, allora difficilmente si troverà la forza di resistere alla tentazione di radere al suolo il sacro monumento. Con tutto quello che di buono è possibile trovare, persino nell’italica valle di lacrime del commercio di tabacco da pipa, e con dei toscani tanto buoni quanto fedeli alla memoria ancestrale di questo genere di sigaro, perché ridursi a commettere sacrilegio, che anche in compagnia del buon Ramazzotti comunque si rischia di ritrovarsi sul banco degli imputati? Se ne potrebbe, oggigiorno, fare volentieri a meno? Probabilmente si. Ma alcuni hanno la testa dura. Oppure sono deboli di spirito, poveri peccatori che non resistono alle gioie di assaporare il vizio nelle mille sfumature con le quali tenta l’animo umano, con la mezza certezza di ritrovarsi sotto la pioggia infernale alla stregua di Ciacco : chi scrive, probabilmente, potrebbe ritrovarsi con la groppa bagnata e magari anche calpestato da qualche padre delle future patrie, ammesso che ve ne saranno. Eppure, coscientemente, quella piccola delizia che — strutturalmente parlando — fa del non avere né capo né coda la materializzazione tabagica del gusto della trasgressione e dell’empietà del sacrilegio, mi risulta irrinunciabile. Tante volte, animato da propositi virtuosi, mettendo mano alle scatole da due del Long mi sono ripromesso di non cadere in tentazione, di cercare di non brutalizzarne almeno una, di non sbriciolare nemmeno un «ammezzato», di scacciare i cattivi pensieri prima di dover ricorrere al cilicio o ad una moderna imitazione del Flagrum romano : ma niente. E prima di dovermi vedere costretto a rimediare un qualche arnese del genere, con un raggiro da sofista, mi sono detto che in fin dei conti la carne è carne, e va bene così. Cosa c’è di tanto delizioso in un «Mastro Tornabuoni» qualsiasi fumato nella pipa? Probabilmente il tabacco così com’è. Niente di più e niente di meno : buon Kentucky da utilizzare nella pipa. Non è un’operazione giustificabile come quando si miscela con il Virginia, non è per nulla pregno di quella complessità natìa di quando fu fatto sigaro, ma è buono in modo diverso. È buono perché — l’amante del genere — vi troverà un gusto talmente prorompente quanto estremamente appagante nonché privo di ogni carezza rasserenante, come la foga di un fiume in piena che si naviga per il piacere pericoloso di farlo, pari all’apertura della via più impervia e claustrofobica per raggiungere la vetta di un monte. Una sorta di «Monte Analogo» del Kentucky italiano in generale, un tipo di tentativo per liberarsi dalla angustia concettuale che il tabacco da pipa si mette nella pipa e il sigaro si fuma tale quale, un tentativo di spezzare l’ordinario. Vi si può ragionare come il sottoscritto e fumarlo coscienti che si è sacrificato sull’altare della golosità tabagica il senso del fumare il toscano, lo si può fumare per il piacere sadico di sentirselo rompere tra le mani, scricchiolando. Lo si può fumare perché è giunto il caldo dell’inferno, perché sono finite le cimette e in paese non le vendono — a differenza dei sigari —, per avere il gusto di celebrare Ramazzotti, magari con libro alla mano. Le motivazioni non mancano, e dopotutto, qualche giustificazione viene anche da sè.

Balkan Mixture, o della via ritrovata

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Ai tempi in cui iniziai a fumare nella pipa, le english mixtures erano pane quotidiano : mi dilettavo con l’Early Morning o con il My Mixture, poi passai allo Squadron Leader di Samuel Gawith, che in fin dei conti rimane una delle mie preferite della suddetta tipologia. Da fumatore di english mixture — tanto per utilizzare un «parolone» — il profumo incensato del Latakia mi divenne quasi insopportabile : sono propenso a pensare che tale «fastidio» non sia stato dovuto tanto al Latakia di per sé, quanto all’impronta lasciata da sapori nettamente rustici, di cui ho largamente parlato e ai quali continuerò a dedicare del tempo. Con il tempo, nonostante estemporanei feeling piuttosto intensi e non privi di senso con prodotti annoveranti in termini pressoché insoliti il Latakia (SG Bothy Flake, per fare un esempio…) la piccola foglia di Laodicea ha smesso di profumare dal fornello delle pipe del sottoscritto. Alcuni Pease mi hanno riavvicinato, seppur con una rimarchevole cautela, alle miscele «incensate», ma se a qualcuno va riconosciuto il merito di aver riportato su «La Pipa Parlante» l’argomento Latakia coscientemente trattato, questo lo si deve alla fenomenale Gawith&Hoggarth, a cui non è possibile non tributare una profonda gratitudine in termini di serietà e qualità. Che gli strong di casa G&H facilmente reperibili sul territorio nazionale — Dark Flake e Dark Bird’s Eye — siano ben saldi sulla vetta olimpica delle personalissime preferenze di chi scrive, il Balkan Mixture si sta ritagliando uno spazio tanto solido quanto destinato ad allargarsi. Tutto questo discorso è paradossale. Si va verso il caldo, e per il sottoscritto il clima di giugno è già torrido : d’estate fumare il Latakia mi è sempre stato arduo, una vera e propria fatica di Ercole. In secondo luogo, l’interpretazione Balkan di Gawith&Hoggarth ne è equipaggiata «quanto basta», di Latakia, e qui l’antitesi con quanto fumato piacevolmente sino ad oggi è grossa quanto il K2, anche se la facilità con la quale «si discendono» le pareti del fornello in cui ho appena terminato di gustarlo, quello della Dunhill Cumberland gr.3 che si vede in foto, aggiunge altri interrogativi a quello che è già di per sé l’interrogativo centrale : “ come la mettiamo con questo benedetto Latakia? ”.

Ebbene, non saprei dire con certezza a riguardo. C’è da dire che la miscela Balkan di Gawith&Hoggarth rispetto ad altre miscele inglesi più o meno rinforzate sul versante Latakia, dello stesso, ne fa un utilizzo equilibrato, ben calcolato (se non erro non credo che vi siano dichiarazioni circa le percentuali) e comunque capace di restituire un equilibrio ricco, grasso, senza sconfinare in una fumata che si definirebbe barocca. Probabilmente non è il paragone migliore che si potrebbe fare, ma prendendo il Balkan Flake dei noti cugini Samuel Gawith — che indubbiamente il taglio gioca un ruolo di non poco conto — in tal caso, si sconfina in una ricchezza senza misura, in uno sfarzo eccessivo, in un’ampollosità dei sapori, degli aromi e in particolare del Latakia che rende difficile immaginare di poterne fare un utilizzo disinvolto, pratico, ammesso che il fumare nella pipa non sia solo un momento speciale nell’arco della giornata, quanto piuttosto un modo di fumare tout-court — tempo a disposizione permettendo —, che concepisce l’utilizzo della pipa in primis come strumento, poi come puro «momento». Già il Westminster del buon Pease aveva riportato nella giornata pipica del sottoscritto un utilizzo pacato delle miscele inglesi, ma un utilizzo quasi quotidiano, nel senso che dopo aver terminato il primo fornello, nel corso della giornata, ci si sarebbe ritrovati con la voglia di rimettere nuovamente mano alla miscela precedentemente gustata. Con il Balkan G&H le fumate stanno scorrendo, tengo il Bormioli a portata di mano, qualche pipa comincia ad essergli consacrata, come se nella mente, ormai, la lovat gruppo 3 sopra ritratta incominci ad essere associata alla miscela in questione e al Latakia in generale, «problema» che fino ad oggi non mi si era mai presentato tanto urgente, considerato che i sapori a cui sono solito tendono poco o nulla a lasciare la propria impronta nella pipa. In fin dei conti, anche la nota Lakeland scent del Dark Flake mi risulta piuttosto gradita e non compromettente, con un fornello di Cimette, che comunque sia aiuta non poco a «ripulire», dopo qualche fumata. Con sorpresa, mi sono ritrovato a dedicare una pipa esclusivamente al Latakia, novità che mi affascina, e che mi fa guardare quell’ottima Dunhill, ottima come può essere una pipa «dell’alta nobiltà», ricongiunta alle miscele che, probabilmente, ne esaltano in maniera sublime tanto le qualità che le possibilità, andando a comporre un binomio perfetto, sia nella pratica che nell’immaginazione e nella fantasia.

Come dicevo sopra, il Balkan è una miscela quasi perfetta senza essere tracotante, senza fare sfoggio di chissà quale protervia. Se dello Squadron Leader apprezzo la componente importante del Virginia, che lo rende docile rispetto a miscele più abbondanti in termini di Latakia, e se del Westminster di Pease apprezzo l’american spirit con cui viene accostato il concetto di english mixture, concordando con il lettore che mi faceva notare a proposito — e a ragione — l’alta qualità del Latakia impiegato, ma soprattutto l’eclettismo di quel red Virginia che solo a vederlo fa pensare alle praterie del Nuovo Mondo, la Balkan Gawith&Hoggarth presenta, a mio dire, una proporzione quasi perfetta degli ingredienti. Una Balkan che non è ferocemente affumicata, una miscela «all’inglese» che non ha dentro quel Latakia «appassito», che lascia un gusto smorto di affumicatura dozzinale e niente più, ma restituisce un sapore di affumicatura, di incenso, così come può immaginarlo la mente, così come ce lo si aspetterebbe, così come lo si percepisce all’apertura della tin : la foglia di Laodicea così come viene descritta, e come tale risulta essere. Il resto, ovvero Virginia, Turchi e Orientali lega benissimo e restituiscono al palato il gusto di una miscela ricca, grassa, opulenta — ma il giusto — così come la forza, che in fin dei conti è sopra una mild classicamente intesa, e lambisce i confine delle terre medie. Sono certo che in questo ultimo periodo, con la «recensione» del Westminster, e con le esplorazioni fatte in terre «balcaniche» si apra un nuovo capitolo dell’irrisolta questione Latakia. Certamente fumerò con meno diffidenza, con una maggiore predisposizione all’ascolto e senza essere prevenuto nei confronti di un’aroma che, nel proprio rifiuto, annovera presumibilmente delle componenti anche psicologiche, legate ai ricordi di vecchie fumate poco soddisfacenti e troppo noiose. Il tempo muta i gusti, forse il sottoscritto non muterà completamente in un amante delle english mixture o delle rafforzate balkan, ma se l’idillio dura — e il sospetto non è infondato —, continuerà a fumarle, senza esagerare, ma anche lontano da qualsivoglia ideologica moderazione. Sapendo come goderne, come in questa giornata in cui scrivo, contesa dal sole e dalle nuvole, guardando dal terrazzo le rondini che si librano in volo, sfrecciando ed esibendosi in mille evoluzioni, per poi tornare e nutrire la progenie che attende…

Dei fumi iniziatici

volpe lakeland blog

Ormai più di quattro anni fa scrivevo per la prima volta di uno dei prodotti da me maggiormente preferiti, praticamente un must della cambusa : il Lakeland Dark  di Samuel Gawith. Scrivere di ciò che più è gradito al sottoscritto è divenuto con il tempo una regola, un metodo per continuare ad illustrare un personale percorso alle prese con la pipa e con il mondo del lento fumo in senso lato. Trovo che si annidi, sottilmente, una vena di ingiustizia nel «recensire» trinciati — a volte persino di nobile casata — dei quali si è indecisi, non completamente convinti e ai quali si rischia di fare piccoli torti, volenti o nolenti. A proposito dei prodotti del buon Pease, mi si chiedeva in un commento in margine al Westminster, un parere (se lo avessi fumato, beninteso…) sul Gaslight. Considerando il rapporto del sottoscritto con il Latakia, non sempre facile seppur mai completamente di dichiarata avversione (trova spazio nei suoi momenti, ma limitato a questi) e con un «taglio» in questione come quello di un plug, che necessita necessariamente di entrarvi minimamente in confidenza, il Gaslight dovrà ancora aspettare per essere illustrato al meglio, per giunta da un fumatore di Latakia incostante, e che probabilmente renderà il discorso privo di quel pathos che potrebbe conferirgli un fumatore coscientemente ammaliato da miscele di tale tipologia. Ma cosa vi ha a che fare questa piccola considerazione con il Lakeland? Semplicemente, avrei voluto trattare dei prodotti annoveranti il Latakia (piccola anteprima : probabilmente a breve sarà il turno del Balkan Mixture di GH…), e tra questi il Gaslight, ma cercando di affinare il più possibile le capacità di cogliere il buono che è presente in questi incensi, fumati estemporaneamente, mi è d’obbligo riprendere (non certo per il gusto della ripetizione…) le quattro righe striminzite che dedicai al Lakeland, in virtù del fatto di essere uno degli strong che fumo da tempo, ininterrottamente, e che vedrà prossimamente una comparativa con i cugini «profumati» Gawith Hoggarth. Tornare a trattare del Lakeland a quattro anni dalla sua prima comparsa su queste pagine, credo sia cosa dovuta. Ai tempi in cui incominciai a fumarlo spesso, con gusto, potevo avere delle impressioni che, nonostante mi sento energicamente di confermare, non sono per nulla esaustive, nonché a malapena capaci di illustrare il pensiero dell’autore sul broken flake in questione. Mi vien da scrivere broken flake poiché pur essendo a conoscenza dell’esistenza di una versione in taglio ribbon, se la memoria non mi inganna presente agli esordi della comparsa su suolo italico del Lakeland, non ho mai avuto la possibilità di incontrarlo sotto diverse spoglie, pertanto affido al lettore — qualora sia a conoscenza di elementi che a riguardo sfuggono al sottoscritto — di intervenire se lo ritenesse necessario. Disgraziatamente, chi scrive non è proprio il tipo dalla memoria ferrea, quantificare approssimativamente quanto di questo tabacco avrà fumato, è cosa pressoché impossibile. Diciamo però tanto, e comunque non abbastanza da risultarne saturo : certamente ne ho fumato di più rispetto ai cugini profumati, di più rispetto al fratellastro 1792, probabilmente è quello con cui sono entrato più in confidenza. Ma vi sarebbe da dire anche che per colui che scrive, il Lakeland Dark viene considerato come un simbolo iniziatico, un tabacco che ha dato il via alla passione per gli strong d’Oltremanica, e anche quello che per primo ha contribuito a formare il carattere del fumatore quale sono, determinando uno standard concettuale nel riconoscere un tabacco-tipo, una tipologia ideale, la fiamma viva del soggettivismo come manifestazione sintomatica del fumare nella pipa. Mettendo da parte per quanto possibile il Kentucky italiano nelle sue varie espressioni, che ha avuto un ruolo non meno centrale nella formazione del sottoscritto, il Lakeland ha educato in maniera differente: se lo strong all’italiana (facendo riferimento al vecchio Forte e alle Cimette MTB trattate per bene) è piuttosto semplice, immediato e lineare, tipologia apprezzabilissima per le proprie caratteristiche schiette, per il proprio percorso aromatico e gustativo privo di sali-scendi, alieno da meandri e passaggi segreti, lo strong all’inglese, nelle varie declinazioni che ho avuto il piacere di «impipare», con la consapevolezza di fare l’annuncio della banalità, si regge sulla complessità della struttura che le viene conferita dalla lavorazione pregna di concetto, forma mentis delle migliori espressioni della produzione inglese. Parafrasando Nietzsche e venerando lo strong «come educatore», nelle terre dell’empirismo personale le due proli nazionali hanno marciato fianco a fianco, sin dall’inizio di questo percorso si sono avvicendate ad indicare la via, a scovare il passaggio, ad aprire la breccia che consentisse l’imbocco della «retta via» in fatto di gusto personale : ma laddove non bastava la forza delle cannonate, occorreva la sottigliezza della strategia: il Lakeland come primo accostamento a tale tipologia, in virtù dei pregi in fatto di struttura, è stato determinante nell’educare il gusto, nel renderlo bramoso di determinati sentori, di peculiari alchimie, di misurate complessità. Avrebbe potuto essere il Dark Flake, il Dark Bird’s Eye, ma chi scrive non lo saprà mai : al Lakeland il merito, al resto cumbriano il prosieguo sulla via del piacere. Considerazioni personalissime, così come sono personalissime le definizioni, che si lo si voglia o no, la mente elabora : fumare con personalità non significa nulla, formazione personale del fumare, qualcosa. In fatto di tabacco, non vi sono «educatori che devono essere educati» (parafrasando Marx), per chi scrive vi è una sorta di prassi che non si rovescia mai, non ruota mai completamente a porre il fumatore nelle vesti di educatore del tabacco al proprio gusto, anche quando si illude di farlo. In caso di «poca fede», può mollare o perseverare, usare la tecnica (questa o quella pipa) per credere di poter abbellire questo o quel tabacco, questa o quella tipologia, ma sovente è destinato ad abbracciare, a mollare del tutto, o ad insistere con risultati il più delle volte discutibili : il piacere è il tormento degli uomini, dopotutto, mica delle foglie lavorate… E questa non è solo la personalissima storia narrata del sottoscritto alle prese con i minatori del tabacco da pipa, ma anche con i rispettivi bourgeois, le english mixtures, le miscele della perseveranza. E dei dubbi più che delle verità.

Sgomberato il campo dalle riflessioni come quella che precede — peculiarità di questo «nuovo corso» — parliamo del Lakeland nella maniera che più conviene al fumatore. Potrei asserire, contraddittoriamente, che il Lakeland è semplice e complesso allo stesso tempo, immediato e articolato. Non sempre facile da accostare, dalla combustione non facilissima, necessita di essere seguito quanto basta una volta tirato fuori dall’involucro, tin o bulk che sia, ha bisogno di prendere aria il giusto — vale anche per altri, ma forse per il Lakeland è un passaggio più delicato —, se troppo umido all’apertura oppure meno del consueto, il passaggio «all’aria» merita comunque di essere effettuato. Con il tempo ho imparato a gestire questo delicato passaggio, ho imparato a capire al tatto la giusta umidità, il momento  buono per spostare il tutto dal vassoio al Bormioli. Spendo la giusta attenzione alla fase di arieggiamento, anche perché conservato nel giusto contenitore, il grado di umidità desiderato viene mantenuto a lungo, senza grandi problemi. In tutte le confezioni che ho acquistato con il tempo, non mi è mai capitato di trovarlo secco, o troppo asciutto : in tal caso, non essendo un asso della riumidificazione, probabilmente toccherebbe a chi scrive spendere del tempo ad apprendere una sorta di percorso inverso, e nonostante abbia avuto la fortuna di trovarlo sempre con il canonico surplus di umidità, al quale segue una più breve o più lunga fase di controllata «asciugatura», non è detto che incappare in una tin  che faccia aria — la maniera di sigillare alla Samuel Gawith è quasi agli antipodi di quella di un G.L. Pease, non me ne vogliano nel Lake District — sia obbligatoriamente una remota possibilità. Fatto sta che fino ad adesso la tenuta sottovuoto delle latte, seppur alla vista incapace di generare una solida garanzia, almeno per quanto riguarda il Lakeland, ha mantenuto uno standard decente, e largamente accettabile. Mi permetto di insistere sull’umidità e sul passaggio a contatto con l’aria per un motivo, certo, che quantomeno al neofita potrebbe costargli l’empietà di tirar giù tutti i santi della pipa e del tabacco : la combustione. Se umido come appena saltato fuori dalla tin, oltre che a presentare delle dolenti difficoltà di combustione, con riaccensioni varie che tendono ad «impastare» e confondere in qualcosa di poco definibile le favolose note dell’accoppiata britishness Virginia-Kentucky, si rischia — cosa certa, fuor di dubbio — di inumidire la pipa con i «sughi» in maniera davvero eccessiva : una curva comincerebbe a gorgogliare come un rospo nel giro di quattro-cinque tentativi di accensione passabile per buona, con tutto lo sconcerto di vederselo spegnere nel fornello ancora una volta, e nonostante il tiraggio disperato che si è messo in opera. Se tali sono gli inconvenienti del Lakeland fumato «così come esce dalla tin», credere di fregarlo facendolo seccare imputando tutta la malvagità del mondo all’umidità di per sé — equivale a porsi al lato opposto delle difficoltà di combustione. Non brucia bene comunque, e perde in pastosità — quella giusta —, elemento caratterizzante del buon S. Gawith in questione. Non è un tabacco semplice. Già agli inizi, quando incominciai a capirlo, ad apprezzarlo, andavo intuendo come trattarlo, come maneggiarlo al meglio, come caricarlo, come gestirlo in fumata. Ed è un tabacco che qualora lo si riuscisse a gestire, cominciando ad accettare il fatto che con alcune delizie non basta mettersi la pipa in bocca, è di grande insegnamento per i tabacchi a venire. Provare per credere con il Dark Flake dei «cugini» Gawith Hoggarth : la semplicità con il quale lo si fuma — brucia effettivamente più facilmente — dopo aver passato ore alle prese con il Lakeland, vi sembrerà in fatto di combustione una sorta di entry-level della tipologia. Eppure non parliamo del Comune o dell’Allegro… Parliamo sempre di un flake a cui il concetto di umidità non è sconosciuto, affatto, ma al confronto quasi un MacBaren. Questo procedere minuziosamente, con qualche paragone, qualche divagazione di troppo, vuole essere soprattutto un’aiuto — non saprei dire quanto concreto — al neofita che si va appena affacciando al mondo della pipa, e che magari si è visto stregato, che so, dal probabile paesaggio — bellissimo agli occhi del sottoscritto — del Lake District che abbellisce la tin. Tornando al fulcro del discorso, il Lakeland, un broken flake «non facile». Se la combustione va seguita, se un misurato contatto con l’aria è più che consigliato, se l’utilizzo costante del pigino è cosa certa, l’attenzione in fase di caricamento è un’altra di quelle irrinunciabili operazioni. Dopo un po’ che si prende confidenza con il fumare nella pipa, il caricamento che prima ci faceva esibire in mille attenzioni, in mille dubbi, in tot pizzichi etc., lo si incomincia a fare «a occhio», senza star lì a preoccuparsi troppo : la carica «si aggiusta» con il procedere della fumata. Il broken flake in questione, tuttavia, è rimasto l’unico ad essere caricato ritualmente, con tutte le attenzioni del caso, e per quanto riguarda il sottoscritto, la carica, si esplica appollottolando i pezzettoni di pressato in modo vaporoso, piuttosto sciolto, senza «incamiciare» nel fornello, ovvero senza strizzarlo addosso alle pareti del camino. Non occorre mettergli «la camicia di forza». A seguire, le parti più grandi e voluminose del taglio che sono state «appalloccate» — tanto per utilizzare un’espressione di provenienza ciociara — vanno poggiate invece di essere pressate tout-court, con una pressione appena accennata . A fornello pieno, o quasi, — riempire a vostro gradimento, per quel che mi riguarda quasi sempre un millimetro al di sotto del rim — il classico sbriciolato a dar fuoco alle polveri. Il Dark Flake, chi scrive, lo carica con molta meno attenzione, per cui, in vista della comparativa degli strong che verrà — quando, non so… — è una pietra di paragone che è buono tenere a mente.

Virginia-Kentucky, broken flake, partorito nella terra in cui il tabacco da pipa è una cosa tradizionale : credo che in quel della contea di Cumbria il tabacco sia qualcosa di maledettamente serio e nel Lakeland di Samuel Gawith ho sempre trovato la suggestione di una parata senza musica, di una processione religiosa a fiaccole accese, di un silenzio la cui essenza è già abbastanza, e forse anche di più. Non è un tabacco frizzante, vivace, capace di mettere insieme una nota qui e l’altra là e tenere insieme tutta la composizione. Il Lakeland Dark ha due sole note, ma quelle giuste, come le espressioni di Clint Eastwood secondo Sergio Leone : quella di un aroma di cuoio,  profondo e torbato, oscuro e cavernoso, che tende ad impastare e ad amalgamare tutto il complesso aromatico, e quella di una nota di fieno, discreta ma percepibile, che abbellisce la struttura portante di quel tanto che basta, come una ciliegina sulla torta, ma dato che non siamo in terre tanto «chic», sarebbe meglio dire un buon bicchiere — doppio — di Whisky dopo una mangiata senza rimorso. Non è molto complesso, a detta di alcuni, ma a dir del sottoscritto non è affatto semplice, se per semplice si voglia restituire l’idea di mancanza, o deficit in materia di struttura. Indiscutibilmente, almeno per gli amanti di tali composizioni, il Gawith in questione è fuor di dubbio «strutturato». Sotto quale profilo si voglia disquisire di struttura, per chi scrive, va sotto questo nome l’alternanza regolare delle componenti in fumata, la presenza di un ordine facilmente riconoscibile, uno scenario entro il quale — ordinatamente — gli aromi e i profumi di questo o quel tabacco impiegato svolgono il ruolo che gli è proprio, obbediscono alla fantasia del blender che ha creato l’alchimia, e nel Lakeland Dark la fantasia della mente che lo ha prodotto è una fantasia genuina e pragmatica : la fantasia giusta per giocare con il Virginia-Kentucky, adatta a restituire l’armonia — deflagrante — del suddetto legame nelle sue espressioni più alte, più raffinate — paradossalmente. Una di quelle espressioni, nella propria declinazione, oltre la quale, all’immaginazione, rimane soltanto la sterminata piana del rischio…

Di un esotico pensare, Cairo

cairo pease

Riuscire nel tentativo di trattare seriamente — come è indubbio che meriti — una produzione come quella del «Cairo» di G.L. Pease, trinciato di non facile lettura per chi è avvezzo alla Cimetta o al Dark Flake (e affini…) pressoché quotidianamente, è una scommessa fino all’ultimo puff. I tabacchi mild — dicitura odiata dalla burocrazia salutista — nella pletora con la quale si presentano al pubblico, mi lasciano sovente in quello stato emotivo in cui si accapigliano la curiosità verso la composizione che assume tonalità fantastiche — almeno «sulla carta», in questo caso, il mix di Virginia —, e lo scetticismo legato alla maggiore o minore generosità della carica nicotinica capace di appagarmi. Accostarsi ad un prodotto, sia esso presentato sotto varia composizione, taglio o sotto diversa cura, ma che permane in termini ricettivi sotto l’angusta e interrogativa classificazione (non ufficiale ma ufficiosa) di mild, diventa per chi scrive foriera di dubbi, incertezze, al più senso di colpa : se ci si dovesse trovare insoddisfatti alla fine della carica — per giunta di una miscela di Pease… — si pensi con quale rodimento ci si possa mettere a pastrocchiare l’opera di uno dei migliori blender su piazza, ricorrendo al solito condimento di rinforzo. Per giunta, essendomi pervenuto il «Cairo» da «oltreconfine», (non sono facilmente reperibili i pochi Pease attualmente in commercio…), e considerato che tali operazioni di recupero sono tutt’altro che facili per chi non è un grande viaggiatore come il sottoscritto — situazione che genera un’infinità di incomprensioni con chi si conosce e non ha l’accortezza di nascondere il proprio viaggio in qualche «terra promessa» — espongono al rischio di mangiarsi le mani per aver fatto tutte le fatiche diplomatiche del caso, con il risultato di aver importato il trinciato sbagliato. Immaginarsi poi di dover rispondere negativamente alla domanda perentoria, di colui o colei che si sono «stremati» nell’operazione di ricerca del prodotto in particolare, quella : “È buono eh? Con tutti i giri che ho fatto!”. Ecco che la sincerità, talvolta, può essere anche poco conveniente, così come dubbie le meraviglie della composizione «su carta» che determinano l’arrovellamento del cervello e che, allorquando viene appresa la notizia che «il pacco è in arrivo», si confondono alla frenesia di aprire, caricare, accendere… Per poi scoprire di essere appagati e piacevolmente sorpresi, oppure delusi avendo perduta una rara occasione di ritrovarsi con altro di meglio nel fornello della pipa. Coloro che leggono e si trovano nella scomoda posizione di non essere né frontalieri né modesti viaggiatori (chi scrive è uscito una sola volta dalle patrie frontiere…), credo possano ben capire le fatiche interiori — e non — di ritrovarsi a bramare ciò che esula (per motivi diversi) dal contesto nazional-tabagico.

Per orientarsi in questa personalissima descrizione del «Cairo» — tenuto conto di ciò che maggiormente gradisco e il lettore ne è a conoscenza… — occorre aggiungere qualche precisazione in più riguardo il rapporto di chi scrive con l’insieme variegato — maggiore di molto rispetto alla fascia «strong» dei trinciati — delle miscele o delle composizioni che non si adattano al minatore di turno. Apprezzo i buoni Virginia che ritengo essere, oltre che un punto di arrivo, disvelamento delle capacità tecniche maturate nell’esercizio del fumare nella pipa, ancorché soft, tuttavia dalla solida caratteristica compensatoria, vale a dire la disponibilità a rimediare alle ristrettezze dell’appagamento vizioso in virtù di bouquet aromatici che bisogna saper mantenere a galla, pena lo sfaldamento repentino della fioritura aromatica che esige una gestione delicata della fumata. Lasciarsi apprezzare attraverso carezze zuccherine, soffi campestri, odori di impasti appena sfornati, è il contraccambio per una gestione attenta, del fare della misura una neccessità e al contempo una virtù e, nell’apprezzamento più profondo dell’aroma — che attiene anche ad una durata della fumata più lunga — si vede mutare in altro quella diabolica forma di appagamento con la quale si accendono i nettari scuri, quelle dark fired leafs di cui alcune realtà di Albione hanno abbondantemente soddisfatto chi scrive.

Il «Cairo» del buon Pease è un monumento all’onestà, come del resto gran parte di altro della casata che ho avuto modo di provare, e mi conferma ciò che ho imparato a considerare come il principale elargitore di delizia nei prodotti di Pease : la base di Virginia. Nulla togliere alla qualità degli altri ingredienti, ma l’apprezzamento personalissimo di chi scrive, ogni qual volta è costretto a rintracciare il perno intorno al quale ruota tutta l’architettura della miscela fumata, nel caso di Pease, va naturalmente a quel Virginia di qualità, che in tal caso, a ben vedere, va stratificandosi già di per sé, fungendo da piedistallo per le componenti orientali e per il Perique. Di fatti, una predominanza piuttosto stratificata — in primis alla vista — della tipologia di Virginia (Pease dichiara un insieme di «orange, red and bright»…), caratterizzante una miscela che presenta tonalità di giallo-arancio — in larga parte — che muove da gradazioni più chiare a gradazioni più scure, colpo d’occhio che adoro e che prelude a vibranti delizie nonostante il taglio ribbon, che di certo alla vista non produce l’effetto oleoso di un broken flake, o di un flake tout court. Di tale appetibilità è complice anche un certo sentore che restituisce all’olfatto tanto la levigatezza del Virginia, quanto gli spigoletti della componente orientale e quella punta di Perique che svolge il proprio ruolo caratterizzando di misura accorta la miscela nel suo complesso. Difficilmente si può immaginare, sapere all’incirca cosa aspettarsi, da miscele e prodotti di questo genere. L’eclettismo e la ricchezza, componenti dei quali fanno sfoggio talune miscele che attraversano l’Atlantico, ci obbligano a lasciare a casa le certezze, e ad incontrare prodotti di questo tipo — vale altresì per il Cumberland e in misura maggiore per il Robusto (rimandendo su Pease) — senza potersi prefigurare più di tanto l’esperienza della fumata. Un po’ come quando arrivarono in Italia i Gawith Hoggarth&Co., la cui lakeland scent a tin ancora chiusa non mancò certamente di lasciare perplessi — e quasi spinti verso l’ignoto — la maggior parte dei fumatori più attenti e maggiormente inclini a girarci intorno, convinti che, prima di appiccare il fuoco, il tempo speso ad odorare la tin ancora chiusa non fosse ancora giunto al termine. Eppure, la presenza enigmatica del «Cairo» (e ripeto vale per altri della stessa fattura) fonde le inedite composizioni a cui si accosta il fumatore provinciale (come il sottoscritto…) alla complessità della struttura che annovera nel proprio seno. Ad osservarlo, ad odorarlo, rimane oscuro, inpenetrabile alla mente e all’immaginazione, eppure rende — nonostante l’invitante aspetto estetico — piuttosto imbambolati, in un procedimento di carica che sembra vissuto a rilento, quasi a voler continuare a guardarlo per capirci di più, quasi a voler perseverare nella sfida che, date le premesse non proprio a favore dell’indagatore, lascia pensare che sarebbe meglio — e magari più consono — ricorrere alla svelta all’utilizzo del fuoco. Ed infatti, fatto l’elogio del grado di umidità «giusto» che ho riscontrato nel «Cairo», in fumata, ha reso l’idea che la semplicità non sia proprio affar di questo Pease : non intesa nel senso delle difficoltà tecniche, ma nella complessità di riuscire a decifrarlo, di catalogarlo, del poterlo paragonare (non in senso stretto, occhio…) quantomeno al Cumberland, che pur è stato partorito dalla medesima genialità. Eppure, il «Cairo» è una miscela sfuggente, evasiva, che inizialmente potrebbe far credere di trovarsi dinanzi ad un trinciato che annovera una linea dell’evoluzione piuttosto costante, con qualche punta qua e là, ma non è così. Il «Cairo» è una miscela misteriosa, a tratti esoterica, la quale sembra occultare dietro di sé molto più di quello che alle prime e più saporite note vuole dare ad intendere. E qui credo vi sia in toto la genialità e la capacità di immaginare di Gregory Pease. Una miscela che alle prime fumate sembra semplice, lineare ed immediata, col tempo, sembra farsi sempre più complessa, sempre più difficile da poter capire completamente, sempre meno intellegibile ai sensi, sempre più avvolta nell’ombra, nella sensazione di ciò che potrebbe ancora trasmettere, di ciò che lascia preludere. Qualcosa che tiene in sè, ma a cui lascia avvicinare tanto e non più. Vi è una nota ricca, dolce il giusto — non proprio zuccherina — ma che resta sospesa, che tuttavia sembra potersi spingere più in là. Una nota agrumata che vi si inserisce, facendo capolino, lungo tutto il percorso del fornello. Un sentore di terre lontane, esotiche ed esoteriche allo stesso tempo. Una punta speziata (Perique, credendo di non andare errato…) a cavallo tra Medio Oriente e Louisiana, a ricordare che — come del resto la suntuosità dei Virginia — materialmente la miscela proviene dagli Stati Uniti, ma che è capace di portare a cavallo di un cammello per terre e culture che a definirle yankee non passerebbe per la testa a nessuno. È la complessità che lega le varie componenti della miscela, mista alla tendenza di ognuna a raccontare di sé, che rendono il «Cairo» un trinciato affascinante, poiché ingannatore, come un volto travisato, che si lascia scoprire a tratti, ma che lascia intendere che altri squarci, altre visioni, altre profondità potrebbero essere scorte, assaporate, vissute. Più rilassata, questa esotica miscela, dentro fornelli italiani — che nel mio parco pipe sono i più grandi —, maggiormente rotonda e con qualche grazia in più del complesso aromatico dei Virginia e degli Orientali. Nei fornelli più piccoli (intorno al gruppo 3) e più «secchi» delle pipe inglesi, risulta più acidula, a tratti più speziata — nella misura in cui comunque si nota agevolmente la differenza — e viene ridimensionato il carattere avvolgente del Virginia a favore di alcune punte speziate : in questi casi ho apprezzato maggiormente il ruolo del Perique. La forza di questa miscela è più o meno media, a seconda dei gusti. Inizialmente la sentivo più leggera, meno incisiva dal punto di vista della sazietà, ma ho potuto rivalutarla con il tempo, e comunque ciò che affascina di questo Pease, è altro.

Del «Cairo» credo di aver capito, se non proprio poco, di certo non tutto. Fermo restando tutto ciò, mi va a genio l’idea di non averlo chiaro, il «Cairo», che resta una miscela affascinante, a tratti esotica, a tratti riguardante altri contesti, altri luoghi. A cavallo tra i bazar e le lagune, a cavallo tra due mondi. Tutto questo in alcuni grammi che vanno consumandosi man mano che il fumatore cerca di carpirne l’essenza, che a mio modesto dire, potrebbe essere non una, ma molteplici.

Pour en finir avec : S.G. Golden Glow

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Dopo aver scritto — facendo personalissimo ordine — dei Virginia che più gradisco, nella riflessione unitaria non ha potuto trovare spazio, benché il sottoscritto non abbia mancato di nominarlo, il Golden Glow di Samuel Gawith. Le ragioni sono pacifiche : nel confronto col suo parente più prossimo, il Bright di Gawith&Hoggarth, al traguardo del gusto personale se questo fosse analogo a quello di una corsa automobilistica, il Bright lo taglierebbe con due ruote di vantaggio.

Sarebbe inutile descrivere com’è fatto, come si presenta et cetera : sono caratteristiche ben conosciute da chiunque, dato che il prodotto è facilmente reperibile sul suolo patrio, e d’altro canto, perché rovinare la sorpresa di aprire la tin al neofita che si appresta a goderne per la prima volta : a meno che non ne sia totalmente rapito in senso «materiale», il sottoscritto preferisce preservare intatto l’effetto sorpresa, sempre ammesso che si passi per queste pagine. D’altro canto basterebbe dire che parliamo di uno tra i più biondi. Metodo che per altro ben si accorda con il «nuovo corso» con il quale ho ripreso a scrivere : non voglio essere un recensore stricto sensu, e i limiti di questo blog, del proprio status quo ante 2020 stanno tutti nella formula espressiva in bilico tra recensione tecnica e sensazioni nello svolgersi della fumata. Corso che il sottoscritto vuole ormai abbandonare per continuare a descrivere sensazioni per chi volesse leggerle e gettare uno sguardo più ampio, maggiormente discorsivo e capace di racchiudere il vario senza doversi attenere alle sbarre della recensione. Ne ho la libertà, e in fin dei conti, le sensazioni, l’immaginazione, la fantasia con le quali la pipa mi tiene compagnia sarebbero ben poco contemplate nella trasmissione a mezzo telegrafo di alcune recensioni che, a rileggerle, accennano appena ai tanti sfizi di cui lo spirito va alla cerca, nelle sensazioni crescenti del prendere in mano la pipa, persino nei momenti meno fantasiosi e abituali. Sono del parere che alcuni squarci di empirismo tabagifero che ho restituito su queste pagine, benché ancora validi, risultino necessariamente influenzati dal preciso periodo in cui furono posti in essere, difettando spesso di tutto quel contorno sensivo che incarna il fumare nella pipa : si può metterle mano in assoluto spregio del carpe diem, mossi dalle furie dell’abitudine e del vizio, eppure, per questa via, nulla si conclude in rispetto di tali premesse. A conti fatti, senza voler cadere a precipizio nell’autocompiacimento, fumare nella pipa è qualcosa di essenzialmente romantico, e non perché nell’epoca della sigaretta elettronica venga quantomeno considerato démodé  o bizzarro  — basti rammentare il commento nell’attesa di uno spettacolo fatto al sottoscritto da alcuni appena conosciuti, colti dalla meraviglia dell’atto di accendere, vale a dire di «ciò che non si vede tutti a giorni» (per altro a ragione…) — quanto per le molteplici e minuziose, a tratti poco percettibili, occasioni che la pipa offre di godere della foglia prediletta. Quanti modi di fumare mettono insieme tanto? E non è forse — il sottoscritto che parla di sé — pressocché scoperto ai propri stessi occhi che, quando le pipe giacciono incrostate alla rinfusa sulla scrivania — al pari delle penne Bic — la luna o i piedi, come il lettore ha più abitudine di dire, non sono di quelli dritti o di quelle giuste? L’oggetto racchiude più di quel che si pensi allorché inanimato, figurarsi quando vive della propria meccanica!

Ma, messa da parte questa piccola riflessione sulla pipa nel suo complesso — al quale il tabacco concorre non poco affinché la sensazione prenda piede — vediamo di dire qualcosa su questo Golden Glow.

Come detto, mi limito a dire che si tratta di uno dei più biondi in circolazione : ottima sensazione all’apertura della tin (contrariamente a quanto avvenuto per altri parenti suoi, non ne ho mai acquistato in bulk) in linea con la qualità dell’intera offerta Samuel Gawith. Ricollegandomi alla passata riflessione fatta sui Virginia, scrissi che la somiglianza con il Bright è piuttosto considerevole. Colore, corpo, evoluzioni : a modesto dire del sottoscritto, la fratellanza che vi intercorre, tra i due, è tanto visibile a occhio che riscontrabile al palato : mi rendo conto sino a che punto, scrivendone, non riesco a parlare dell’uno senza menzionare l’altro. In fin dei conti, quando iniziai a consumare il Bright, avevano luogo intervalli con il Golden, e una certa sovrapposizione rendeva l’esperimento abbastanza stuzzicante da interessare il sottoscritto. E così, ecco che al consumo più vasto del cugino Hoggarth, dopo qualche carica di questo, seguiva una carica di Gawith : ad intervalli regolari — e concedendomi più della quantità di Virginia che generalmente sono solito consumare nello scorrere quotidiano — il tentativo di districarsi tra i vapori dei due cugini andava risultando un tantino interrogativo, come ad un bivio, il cui punto biforcuto lasciava intendere che le due vie erano parimenti percorribili e fatte delle stesse fatiche. Venirne a capo, poco convinto dall’astuzia di dichiararli l’uno clone dell’altro, continuai — nel tempo — il gioco di alternanze che ormai aveva il suo perché. In fin dei conti, poteva (e lo è stato) risultare anche divertente. E così cominciai a dare seguito alla cosa, ad alternare — senza tuttavia rimuginarci troppo su — i due biondi, lasciandoli correre in santa pace, non senza proferirmi in qualche sorrissetto di approvazione per note maggiormente stimolanti o, al contrario, lasciarmi scappare qualche grugnito quando il complesso delle note aromatiche perdeva qualche punto.

Il tempo che preannuncia l’autunno fu la cornice di queste spensierate — ma vengano parimenti considerate trascorse con «un occhio aperto» — fumate bionde e leggere, quelle in cui a predominare è la sottile dolcezza di un flake di Virginia alla quale si unisce un delicato solletico sulla punta della lingua tale da renderla quasi frizzantina. Splendori dei Virginia di questa tipologia — a patto di guardarsi bene dall’irruenza, cosa non sempre facile… —, che pur non possedendo un gran corpo, ripagano attraverso una frizzantezza che basta a stimolare e a rendere la carica degna di essere portata sino in fondo al fornello mista a tutta l’accortezza che si possa utilizzare, senza neanche rendersi conto dello sforzo che si sta facendo : a dare il ritmo non è tanto la combustione — come più di qualche altra volta avviene con altre delizie, inutile negarlo… —, quanto la persistenza ed il pericoloso mutarsi in ben altro della dolce nota che scorre in orizzontale, senza essere capace di chissà quali evoluzioni (e qui la mia propensione per altri), ma occhio al decadere della stessa! L’annoso e risaputo «dispetto congenito» di tali delizie. Ho scritto che al Golden preferisco l’altro — vero, ma di poco — in virtù della maggiore complessità — modestissimo parere — che dopotutto ruota intorno allo stesso perno : nel Golden rispetto al Bright il complesso aromatico «va un po’ sotto», a volte tende ad esser un pelo poco più denso — apprezzabile di per sé — ma lascia al Gawith&Hoggarth qualche punta di complessità in più, ulteriore percettibilità di sentori erbacei e sfiziosi in cui nel caso del Golden sembrano essere rinchiusi nel magma zuccherino dal quale faticano a venir fuori, rendendo il tutto più standard — da notare che per nulla si tratta di un difetto! Laddove invece si gradisca maggiormente una certa stabilità, il Golden prevarrebbe sul Bright. Questione di gusti, di sensazioni, ma anche di apprezzamento della variazione: se il Bright mi riporta anche ad altro, a sentori maggiormente vari e vivaci, il Virginia in questione fa della sua carica zuccherina il centro di se stesso, privato delle periferie aromatiche dell’altro, ma comunque, quel che si cela nel proprio intimo, è grazia e meraviglia.

Si conclude così il capitolo che da tempo avevo in mente di buttar giù tenendo insieme — più o meno — i Virginia che più ho gradito e fumato delle due maggiori realtà di Kendal : credo di aver cercato di portare a termine piuttosto dignitosamente la mia esperienza alle prese con tali flake. In seguito, volgerò la mia attività narrativa verso altre tipologie di tabacco che seppur già affrontate meritano di essere «rinverdite», nonché verso altro che non ha ancora — immeritatamente — trovato spazio su queste pagine.

 

Avant et arriére (Gli altri e il Gawith Hoggarth Bright CR Flake)

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Il sottoscritto non scrive da quasi un paio d’anni. Come detto nelle considerazioni sul Westminster di Pease, di appunti, bozze, riflessioni lasciate ai loro tre quarti etc., ne possiede a bizzeffe. Del Bright avrei dovuto parlarne a seguito e come prosieguo delle riflessioni a proposito dei cugini SG : Full Virginia Flake, Sam’s Flake, Best Brown. Ai tempi rimandai l’imminente completamento delle riflessioni su questo flake poiché credevo riuscire nell’intento di concluderle e pubblicarle di lì a breve : quando si dice “fare i conti senza l’oste” …

Con rammarico mi trovo a dover parlare – per altro con un ritardo mostruoso – di questo flake. Come detto poc’anzi, l’obiettivo originario di tali considerazioni era quello di poter costituire un legame analitico con i cugini appena menzionati. Quanto Virginia – e di quale casata – ho fumato negli ultimi tempi o quantomeno nei “tempi giusti” per poter tessere la tela di quella che più che una comparazione (alcune sono in programma, alle quali pertanto dovrò metter mano…) voleva essere un tentativo di visione complessiva de “i Quattro dell’Ave Maria“, dei miei Virginia flakes maggiormente graditi? L’idea alla base delle considerazioni sul Bright voleva dare luogo, partendo da esso, ad una visione d’insieme del gradimento personale in materia di tali pressati più o meno blonds. In termini di “scorta”, il quartetto di cui si disquisisce pur perdendo e riacquistando nel tempo trascorso questo o quel componente, ha goduto di garanzia della propria presenza in cambusa grazie alla salvaguardia di dovuti “rimpiazzi”. Dall’esperienza maturata dal dì che fumo di questi Virginia, se ne potrebbe in ogni caso ricavare un’interessante visione d’insieme, che d’altro canto toccherà comunque ai miei manzoniani lettori giudicarla come tale. Come e in quali condizioni si sia arrivati a questo punto, preferisco mantenere l’idea originaria di trattare il Bright all’interno di un quadro più ampio.

Dalle scorse riflessioni sul Full, sul Sam’s e sul Best Brown di Samuel Gawith è passato del tempo. Ciò che ho scritto a riguardo della trilogia menzionata resta tale – seppur con qualche aggiustamento. Varrebbe la pena, preliminarmente, di ricordare che per il sottoscritto pressati di questo tipo non sono dei “tuttogiorno” – ruolo concesso alle Cimette MTB in purezza o ad alcuni strong  inglesi, quando non ad un buon Tornabuoni – piuttosto dei “momenti”, dei nettari per i quali ritaglio fette di tempo che vado a dedicare loro. Che si voglia rimuginare o meno, il Virginia credo possa venir considerato la tipologia del “lento scorrere”, della fumata calma e lunga : pena una repentina perdita di sapore associata a vapori orticanti che possono rendere la nostra lingua una fetta di brasato. Dunque si procede “a fil di fumo”, indiscutibilmente, cosa non sempre facile – tutt’altro! – per chi scrive : il “fil di fumo” non rientra certo nelle mie prerogative naturali di pipatore… Ma al di là del momento di calma piatta, alcuni di questi flake si sono dimostrati validissimi compagni di scoperte.

Avrei piacere di procedere come segue : rispolverare per quanto possibile le peculiarietà di ogni componente della trilogia (Samuel Gawith); passare alla descrizione del Bright di Hoggarth per finire con il collocarlo – considerato il grado di imprecisione che potrebbe necessariamente comportare siffatta cosa – all’interno del quadro organico che vanno a comporre “i Quattro dell’Ave Maria“. Se tale tentativo potrebbe tranquillamente anche non avere senso, personalmente, ritengo e ho ritenuto tale tentativo di delucidazione e di inquadramento piuttosto stimolante. Affermare “preferisco questo a quello poiché questo non è quello” risulta essere un assioma limpidamente tanto indiscutibile che inaggirabile, a ragion veduta se questo e quello siano ad esempio rispettivamente le Cimette MTB e il Commonwealth, ma se ad esserlo fossero tabacchi molto simili, addirittura quasi identici se si parla di categoria e taglio, l’affermazione di cui sopra meriterebbe un pizzico di giustificazione, una lancia – o forse due – spezzata in favore di ciò che si preferisce. Vediamo di ricapitolare :

Il Full Virginia Flake. Difficile dire se sia il più fumato dei tre, di certo il più celeberrimo : basti pensare quanto attiri  – packaging aiutando – colui che è alle prime armi con la pipa. La fama della propria incombustibilità procede di pari di passo con quella della propria verve nettarina : cose che, fatti i conti con l’assoluta soggettività di chi pipa, possono essere più o meno prossime ad un dato pressoché reale – conto tenuto degli innumerevoli fattori che vanno presi in considerazione – ma pertanto, lontane dal potersi fregiare della verità. Rispetto agli altri due Gawith, è di certo il più “carico”. Flavour tonkato a parte per il Sam’s, che lo rende il più eclettico dei tre, il Full è il più corposo del trittico. Già dall’aspetto, dal colore. La denominazione full, a bene interpretarla, dovrebbe sgomberare il campo da equivoci vari : il flake è full per quanto riesca possibile di esserlo ad un prodotto di tale alchimia. Detto in altri termini, non in senso assoluto, quanto piuttosto in ciò che è relativo ai ceppi di tali composizioni. Full per un buon Virginia : la pienezza è incontestabile, il ventaglio aromatico corposo, a patto di inseguirlo sulle ali della moderatezza. Vale anche per gli altri tre e per i Virginia in generale : le proprie delizie vengono concesse al cavaliere della misura, al pipatore che non vuole solo saziare il proprio “appetito”, ma che intende dedicare il proprio tempo, che come detto non sempre è cosa facile per il sottoscritto, di certo non da tutti i giorni ( e a volte neanche cosa da tutte le settimane…), ma che tuttavia conserva regolarmente la propria – e ormai icontestabilmente consolidata – regolarità. Come si diceva, a patto di stargli dietro, di assecondarlo nella propria lenta combustione, a patto di restituire al fumare nella pipa la propria meccanica elitaria, centellinata nel procedere a fil di fumo ed nel piacevole impegno nella dinamica del tiro prima dello spegnimento, il Full Virginia Flake esplode in una dolcezza natalizia, da giorni di festa, di tavole inebriate dall’uvetta, dai datteri o dai fichi secchi. Sul suo presunto comportamento ignifugo vi è poco da dire, che si peschi dal bulk o dalla latta non differisce in nulla da qualsiasi altro flake Samuel Gawith. Tendenzialmente di una arcana dolcezza rispetto ai suoi fratelli, è anche quello in cui lo scarto tra mielosa sapidità e mero vapore è tanto tangibile quanto più si va ad accrescere l’avidità delle sbuffate : non manca di una certa dose di rischio.

Il Best Brown Flake, il flake della nostalgia. Non mi è possibile parlarne senza render gli onori ad una pipa che non è più in mio possesso e che nella memoria – forse a più di ogni altro tabacco – gli è intimamente legata. Si tratta di una Dunhill gruppo 4, una billiard in finitura Bruyere : personalissima divagazione per la quale chiedo venia al pugno di lettori che passano di qua. Mi è possibile dire del Best Brown che complessivamente lo preferisco al fratellone Full : meno carico, ma in larga misura più gestibile. Dacché scrivevo rispetto ad esso “che vada fumato con un minimo di attenzione in più”, l’esperienza mi ha portato – per via contraria – a goderne appieno nonostante l’allentamento dell’attenzione in fumata, spesso e volontieri facendo due passi sul terrazzo con la pipa in bocca, o semplicemente in momenti di relax in cui più che dare, al tabacco, si chiede. E ciò è quello che si può chiedere a tale pressato, di venire allietati senza doverlo corteggiare, senza doverlo collocare integralmente nelle condizioni ad esso più congeniali. Che lo si fumi con più o meno attenzione, senza pertanto fare astrazione della famiglia in cui si colloca, oscilla molto meno dell’altro. Probabilmente nasconde meno ricchezze del fratellone full, i prelibati fluidi scorrono maggiormente in superficie, non occultati nelle profondità ove occorre giungere per trovarli. Più in superficie, un pelo meno intensi, vie più meno cavernosi, più facili e accessibili e forse proprio per questo nel complesso maggiormente godibili, senza dover rinunciare a chissà quale grado di succulenza. Risulta nicotinicamente di certo al di sotto dello stretto parente, ma ciò nulla toglie alla propria godibilità : se si vuol fumare qualcosa di saziante in tutti i sensi, di tale insieme di Virginia se ne potrebbe volentieri fare a meno, giacché basterebbe far saltare il coperchio ad una latta di 1792, sempre ad esserne avvezzi… Ma si va divagando, il bello e il brutto delle libere considerazioni. Rispetto alle scorse considerazione sul Best Brown, ed in virtù di un ribaltamento di piano, non lo trovo aromaticamente di per sè più complesso del Full, quanto pressappoco alla pari – senza dimenticarsi delle differenze presenti – in forza della propria accessibilità, della propria disponibilità senza troppo faticare nel tracciarne il profilo. Vale per questa facilità – e per quella ovvia qualità di chi si chiama Gawith – con la quale è capace di trasportare il fumatore in una densa pianura con i sentori tipici di un Virginia di qualità: quelle note dolci, quegli aromi di campo di cui parlai a suo tempo, i quali non posso che continuare a confermare.

Il Sam’s Flake, la pecora nera. Se questa non fosse un’illustrazione più che personale di un piccolo quadro di Virginia, a voler essere corretti, più che il suddetto dovrebbe essere presente il Golden Glow, per altro biologicamente più apparentato al Bright : ma considerato che l’oggetto del contendere non è il razionale dare luogo ad una comparazione di categoria, quanto l’irrazionale dipinto dei propri gusti, il Sam’s non può mancare. Non me ne vogliano gli aficionados del Golden Glow, se di poco gli preferisco il Bright. Tornando al Sam’s, si imbocca una deviazione che con tutte le diverse peculiarità del tragitto, scorre parallela a quella degli altri. Se è vero che “quel che va nelle maniche non può andar ne’ gheroni” (Manzoni), è altrettanto plausibile che, pur nella diversità, il Sam’s mantiene caratteri ai quali non si può ragionevolmente far torto e in ragion dei quali – senza operare chissà quale forzatura – una personale cesta del gradimento può tranquillamente accoglierlo al fianco degli altri due SG e del GH, la cui descrizione verrà a seguire. A far divergere il Sam’s tanto dai fratelli Gawith che dal cugino Hoggarth, è la profumazione che gli è propria, tonquin bean, e la composizione di Virginia e Turchi che lo rendono alquanto orientaleggiante. Ed infatti, restando saldamente fermo sulla propria base zuccherina tipica dei Virginia – e qui sta la propria giustificazione su questa pagina – le divagazioni aromatiche, i profumi floreali, la tonka in sottofondo e mai invadente, alcune note di cedro che donano brio e freschezza, rendono questo flake il più vivace del lotto, il più birichino, quello dal ventaglio aromatico più ampio. Si corre avanti e indietro, durante tutta la fumata, in compagnia di profumazioni primaverili, fresche, delle note di un prato coperto di rugiada, di erbe novelle, di primaverili boccioli che si schiudono. La carica nicotinica è sufficiente, giusta per la tipologia di prodotto quale è il Sam’s, e pertanto chiedere di più, forse, sarebbe troppo. A convincermi del Sam’s è la sua freschezza, ma anche la propria capacità – come per il Best Brown – di lasciarsi scoprire e concedere le proprie profumazioni, il proprio dono aromatico, senza che – metaforicamente parlando – ci si debba lanciare in ossequiosi salamelecchi con la pipa in bocca. Forse una carica nicotinica maggiore avrebbe cozzato con la fresca leggerezza di questo flake? Che importanza ha, così com’è è già il Sam’s

Gawith Hoggarth Bright CR Flake. Si è giunti al Virginia che ancora non ho praticamente affrontato su queste pagine. Mi ritrovo a scriverne per la prima volta, dopo alcuni fornelli ai quali ho frapposto un paio di fornelli di Golden Glow (al quale dedicherò in secondo tempo i miei pensieri, a voler essere maggiormente corretti…) e nei fatti le differenze che vi intercorrono sono di piccole dimensioni, quasi trascurabili, premettendo che ad entrambi ho dedicato pipe simili per dimensioni (una Radice Rind, una Poker di Giacomo Penzo, una Panel di Carlo Volpe, una Castello Sea Rock…) e che ritengo – nei limiti del mio parco pipe – bene attagliarsi a tale tipologia di Virginia. Cosa si può dire del Gawith Hoggarth? Innanzitutto la tipologia dei più biondi, dei Virginia come il nostro Bright sono quelli che gradisco un pelino meno, preferendo quelli con un minimo di corpo in più. L’ho fumato, mi ha appassionato – impossibile non riconoscere l’elevata qualità di fondo – tuttavia non mi ha rapito, non del tutto, quantomeno. Poco importa però di questo, si parla di un flake comunque entusiasmante, e che vale la pena acquistare e tenere in cambusa (e ci mancherebbe altro!). Rapimento a parte, le note di questo Bright sono di certo quelle di un Virginia flake nature di fattura superiore : dolcezza, sentori erbacei, un non so che di estivo, una sensazione di sentori che ho riscontrato anche nel Golden, ma che nel Bright trovo più persistente e un filo – di poco – più complessa. Sin dall’apertura della latta, sin dal momento in cui lo si va a toccare, a maneggiare, ad annusare, trasmette la golosità canonica che i Virginia di questa qualità non possono non trasmettere, e una domanda, una perplessità mi stuzzicava non poco prima di sfregarlo nei palmi delle mani e caricarlo nel fornello : ci sarà o non ci sarà quella famosa nota dei Gawith Hoggarth, in gergo (credo) chiamata Lakeland scent? L’ho trovato piuttosto canonico, piuttosto vicino alla norma che alle profumazioni tipicamente note in altri GH, e credo sia meglio così. Non saprei come si potrebbe reagire ad un Virginia biondo, naturale, decisamente profumato di tale nota. Fatto sta che non delude di certo : cremoso, zuccherino, costante. L’evoluzione in fumata non è granché ardita, tuttavia ho molto apprezzato la progressione retta, diritta, di questo Virginia. Non sempre si è alla ricerca di chissà quali evoluzioni, e la progressione lineare del Bright ne ha fatto, a gusto del sottoscritto, un Virginia di alto livello per i momenti più spensierati, durante i quali si accende la pipa e si legge un libro, contando sul fatto che, tolti i pochi accorgimenti della fumata, la trama del romanzo scorre e le papille gustative sono appagate quanto la mente… Un flake morbido, cremoso e perfino easy, che mi sarei aspettato un pelino più difficile, ma che ho trovato godibilissimo nel proprio candore.

In conclusione, non si tratta tanto di gerarchizzare il quadro d’insieme, quanto di connettere i pregi, gli utilizzi e i limiti dei Virginia in questione. Per complessità, per ventaglio aromatico, per variazione delle note saporite, il Sam’s  – negli utilizzi di chi scrive – è forse il più appagante, il più divertente. Il Best Brown – questione memoria a partein virtù di come è andato evolvendosi nelle pratiche di chi scrive ed in ragione della scoperta riguardo la propria versatilità, è il Virginia che ha coniugato complessità e spensieratezza più di ogni altro. Rispetto al Sam’s è meno ardito, ma è sempre costante, che lo si fumi con attenzione e pignoleria o che lo si fumi chiacchierando con chicchessia. Il Full Virginia Flake e il Bright si vanno a trovare agli antipodi l’uno dell’altro, tanto per lo scarto di corpo e pienezza che intercorre tra i due (a favore del Full) quanto in ragione delle rispettive accessibilità, più facile ed invitante il Bright, più impervi e impegnativi, au contraire, i percorsi del Samuel Gawith.

Da tempo volevo mettere un pochino di ordine nelle personalissime considerazioni su questi Virginia, non solo “tanto per”, ma al fine di lasciare nero su bianco la compagnia che, di tanto in tanto, questi succosi flake mi hanno regalato durante questo periodo di inattività. Al grande escluso Golden Glow, come detto, dedicherò una singola considerazione. Quando non so, ma spero di riuscirvi.

G.L.Pease Westminster

 

pease west. blog

Un ritorno forse inaspettato per i manzoniani lettori di questo blog, ammesso che ne abbia ancora. Chi scrive e cura questo blog – nato nel tentativo di raccontare la personale esperienza di un ragazzo alle prese con la pipa, – a causa di varie peripezie esistenziali, su queste pagine, è stato uccel di bosco.

Nel periodo di tale assenza, la pipa (ma anche il sigaro…) hanno continuato a tenermi compagnia, così come ha continuato a tenermi compagnia la voglia di esplorare, fumare trinciati mai provati prima e tornare su precedenti alchimie che, forse, avrebbero potuto esprimere nuovi linguaggi. Al di là di questo, il sottoscritto ha continuato a vivere la propria quotidianità che per quanto possa essere evoluta rispetto alle giornate nelle quali si occupava di questo misero blog, non ha mancato di essere scandita dal riempimento dei fornelli e dal procedere delle braci. Cos’è mancato? Di certo non la voglia di condividere, che mai si è trattato di questo. Piuttosto, il tentativo di prosieguo dell’esperienza di pipatore “in solitaria”, a mente fresca, senza dover star troppo a pensare a talune o talaltre caratteristiche e sensazioni, che tuttavia, si palesano ogni qual volta ci si ritrova a pipare. È possibile “impiparsene”, per dirla con il de Curtis, di tutto questo abbondante contorno della pipata? Si di certo, ma la vera domanda dovrebbe essere un’altra : “fino a quando?”. Ab illo tempore, avendo un sacco di appunti, “appuntati” e lasciati come bozze, su trinciati, pipe, sigari etc., che alla lunga intristiva non poco a vederli così smozzicati, il sottoscritto si rendeva conto che occorreva rendergli dignità. E magari, farlo in questo periodo di tristezza e clausura, potrebbe restituire qualcosa (lo spero vivamente), come la propria gratitudine verso i suddetti lettori che non hanno smesso di lasciare qualche commento o fare un salto su queste pagine, nella speranza di poter “distrarre” (per quanto possibile a queste poche parole…) qualcuno di loro.

Se qualcuno ricorda come il sottoscritto trattò l’argomento Latakia e in particolare la English Mixture “di per sé”, sa che non potrebbe definirsene un habitué. Iniziai col fumarle toujours, per poi privilegiare tutt’altro – specie Cimette e alcuni Virginia – i quali rientrano molto, molto di più, nelle corde di chi scrive. Il tabacco in questione, del quale si va trattando, il “Westminster” di Pease, non fa eccezione in tal senso, piuttosto in un altro : forse è la migliore EM che abbia mai fumato. Vado a memoria, non ricordo (e non controllerò a ritroso le mie parole, farlo non mi interessa…) se avevo insignito lo Squadron Leader di S. Gawith di questa magra onorificenza : dopotutto, resta una grande (e iconica) E.M. … E trinciato da pipa in senso lato.

Non mi prenderò la noia di considerare a scopo interrogativo il prezzo : non è certo un punto che gioca a favore del Westminster, ma la “quistione prezzo”, seppur non sottovalutabile, considerato il mio rapporto con le “inglesi”, non la si può di certo considerare portante. Or bene, dopo questo lunga prolegomeni – dovuta, tuttavia – sarebbe meglio passare al G.L. Pease. A scanso di equivoci, il “confronto” con lo Squadron Leader, velocemente fatto sopra, è poco importante e sinceramente neanche pensabile di “oggettività”.

La composizione e il taglio : piacevoli, entrambi. Una miscela inglese “tonda” a base di  Virginia (red) – deliziosi – e, ovvio, il Latakia. A completare il quadro, piuttosto classico, la componente degli Orientali. Il taglio è “grossolano”, ma non troppo : caratteristica che personalmente ho gradito. Gusto, “sostanza” e “presenza in fumata” – a dir del sottoscritto  – sono il risultato del connubbio tra qualità dei tabacchi impiegati e taglio : un cocktail “oleoso”, pieno. Un esempio di come una miscela possa essere pienamente presente e partecipe in termini di fumata. Intendiamoci, non la pienezza né la pastosità di un Balkan Flake SG (e ci mancherebbe, tra E.M. e Balkan ce ne passa…), ma quale si addice – in maniera non scontata – ad una English Mixture, ad una buona English Mixture, perché a dire E.M. si fa presto. Astraendo – per quanto possibile – dal mercato italiano e dai prezzi che lo caratterizzano e ponendo l’interrogativo in altri “paesaggi”, certo più ameni, nello specifico più livellatori, il Westminster avrebbe (e probabilmente ha…) qualche metro di vantaggio sugli inseguitori della stessa categoria.

In fumata, il carattere oleifero di cui sopra, a restare nei limiti di una E.M., è sublime. Non credevo di riuscire a tenere tante pipate consecutive, nel senso di fumare tanto a lungo senza cambiare tabacco, senza ricorrere ad un paio di Cimette MTB o ad un Long Filler, vuoi ad un Best Brown : il Latakia in genere, nell’ampio ventaglio delle miscele in cui è presente, mi sazia – nel bene o nel male – dopo un fornello, due al massimo. Beh, con il Pease in questione, la storia è andata diversamente dal solito, e questo è di certo motivo di stupore. Quantomeno, incuriosisce. Una miscela equilibrata, ma piena di gusto, di sapore. A tratti con qualche nota dolce – nel range della componente Virginia – che tanto me lo ha fatto apprezzare. Una miscela inglese ottima. Non credevo di “stancarmene” tanto tardi, eppure, è successo. A ragionarci su, l’eccezione che pertanto rende veritiero e trasparente il rapporto “odio e amore” che permane nell’accostamento del sottoscritto alla miscela inglese quale tipologia.