Il soapy della memoria

Deer-Hunter

Ai tempi in cui vidi per la prima volta «The Deer Hunter» di Michael Cimino ne rimasi positivamente frastornato. Molti tengono in considerazione tale film — taluni anche polemicamente — per le scene che restituiscono la crudezza e l’ignoto della propria sorte concretizzate dal buon Cimino con le immagini che descrivono dei frammenti della guerra in Vietnam. Sebbene questo aspetto per chi scrive non sia affatto secondario — prima di vedere questo film non avevo idea di cosa potesse essere la «roulette russa» (l’ho visto abbastanza presto) — ciò che ho amato sin dalla prima visione (e non saprei dire quante volte lo abbia rivisto ancora) sono le gioiose e conviviali scene iniziali che introducono il terribile destino di una comitiva di immigrati russi e scherzosi americani della Pennsylvania. Sin da giovanotto, nei film, guardavo con curiosità alcuni dettagli. Tra questi, le automobili dei protagonisti, i completi, le cravatte, gli smoking. E poi le scene che ti rimangono impresse, quelle segnate dalla musica, quelle in cui i protagonisti cantano e sono tutt’uno con la traccia sovraimpressa : nella mia immaginazione di tredicenne, da grande, avrei di certo cantato il ritornello di «Can’t Take My Eyes off You» — quell’irresistibile «I love you baby!» — giocando a biliardo in compagnia. Avrei scoperto più tardi che la realtà è ben diversa dalla bellezza cinematografica, che la maggior parte della gente gioca a biliardo in modo del tutto funereo : all’occasione — ormai più unica che rara — mi ripeto da anni che certamente non hanno mai visto «Il Cacciatore».
Con gli anni, in tanti scambi di opinioni, non ho mai fatto mistero che le scene preferite dal vostro siano quelle della “prima parte” del film, prima dell’atterraggio dei protagonisti in Vietnam. Per chi scrive, gran parte del capolavoro di Cimino è contenuto nelle scene di amicizia — non sempre “facile” — di quella comitiva di operai negli USA : scalcagnati, casinisti, tragici nella loro postura goliardica.
Se già tredicenne fui affascinato da tutto quello che Cimino — e i purosangue che formano il cast — aveva rappresentato sin nei dettagli, l’atmosfera de «Il Cacciatore» nei suoi lati più festosi non mi era del tutto estranea, così come non mi erano estranei alcuni dettagli — gli abiti, in primis — che anche se ad indossarli non era il vostro, in quanto ragazzino (un paio di pantaloni e un maglione ai tempi andavano più che bene…) ne aveva visti parecchi nell’alternarsi dei “Natali”, delle “Pasque”, dei matrimoni (come nel film…), dei battesimi e così via. E di questi ne avevo invidia, ma ne possedevo anche la consolante prospettiva che quando sarei cresciuto ne avrei avuti di miei. Ora, i personaggi che affollavano le feste di famiglia non sono mai stati ospiti “raffinati”, ma piuttosto nella media. Alcuni goliardici — ed anche vagamente somiglianti a quelli del capolavoro di Cimino — altri certamente più seri, ma erano comunque quasi tutti, più o meno, degli operai vestiti a festa — anche questo come nel film di Cimino. Questo particolare, che poi donava la loro vera personalità a quegli abiti, non l’ho mai dimenticato e ancora oggi è un mio pallino. Non mi intendo di moda, anzi, della cosiddetta «moda» non ne capisco nulla. Come mio padre, come mio nonno, come mio zio e come altri, mi basta sapere che in alcune occasioni “serie” (anche se si fa “casino”) basta un completo scuro, sobrio e meglio se nero. La mia prima volta, quando poco più che maggiorenne mi ritrovai ad una festa che non contemplava solo la presenza di ragazzi — ma anche di molti famigliari del festeggiato — riuscii a strappare a mio padre un suo completo che da tempo mi piaceva vederglielo addosso, e dato che le occasioni per indossarlo non erano poi molte, e il completo aveva ancora vita molto breve, sembrava fosse stato comprato per me, per quell’occasione. Le taglie, certamente, erano sovrapponibili e ancora oggi che di anni ne ho una decina in più, qualcosa di mio e qualcosa di suo va e viene. Quando poco tempo fa, quel completo grigio della mia prima volta saltò di nuovo fuori — moderno perché classico nella sua semplicità — e me lo ritrovai addosso, come allora con la stessa reverenza verso quello che è “il completo grigio” (poiché è l’unico di tale colore nel mio armadio…), la mente ha partorito tutta la pletora di ricordi che in questo momento sto mettendo per iscritto. Ma se la memoria visiva, che ha parlato fino ad adesso, risulta essere necessaria, ma non sufficiente, tali ricordi hanno come cornice un odore, ovvero l’odore che tutti quegli uomini vestiti a festa emanavano e che di quegli abiti ne era la fragranza : quella feroce dell’acqua di Colonia, il must olfattivo delle feste in famiglia e/o casalinghe. La usa, ovviamente, anche il sottoscritto, forse in maniera più moderata dei miei parenti, ma la usa con soddisfazione. Di quella soddisfazione che sola sa giustificare la memoria dei tempi che furono, anche se limata da un’acqua di Colonia di qualità migliore — forse — di quella che usava ai tempi la moltitudine dei mie famigliari maschi.
Quando i Gawith Hoggarth &co. toccarono suolo italiano, il vostro era preso da alcuni dilemmi, piaceri, e costernazioni. Il vecchio Forte non si trovava più — fui fortunato a trovarne delle stecche invendute —, con le miscele inglesi incominciavo a litigare e il Lakeland di Samuel Gawith era un tuttogiorno.
Tutto ebbe inizio recandomi in tabaccheria per acquistare i miei Samuel Gawith preferiti. Al che, conoscendo la mia propensione per il Lakeland, il gestore mi mise al corrente di avere finalmente disponibili i G&H. Inizialmente, a parte la curiosità — per altro abbastanza limitata del sottoscritto — non avevo dato molto peso all’arrivo dei trinciati di quella che per me è — forse — la migliore casata produttrice di tabacco da pipa (ormai fusasi con Samuel Gawith). Come si metterebbe una carota sotto il naso di un cavallo, il gestore fece con il vostro utilizzando una latta di Dark Flake. Mi disse di odorare. Quel profumo — che ricollegai subito all’acqua di Colonia delle feste — mi portò indietro di anni. Quel giorno nacque il mio amore per i G&H. Per il Dark Flake, per il Dark Birds Eye (aromaticamente meno forte del primo…), per l’Ennerdale (un signor soapy). Nella profumazione tipica della casata, nella maniera con la quale innaffiano i soapy, nelle mille sfumature di kendal scent ho avuto la possibilità di tornare indietro con la memoria, alle belle immagini delle famiglie unite, con gli uomini che bevono i loro drink preferiti — in casa sua mio nonno utilizzava, in tali occasioni (e non solo…) apparecchiare un tavolino con tutto quello che di alcolicamente buono vi potesse essere — e le mogli a proferire parole di rimprovero (invero del tutto inascoltate dalla controparte) circa il non esagerare (almeno) prima di sedersi a tavola. Un’altra di quelle immagini fisse e impresse a fuoco nella mia mente.
La memoria, le immagini di convivialità, sono sempre immagini che mi restituiscono tanto le feste invernali che quelle estive. Le une dentro casa, nelle “salette” in cui l’odore dell’acqua di Colonia mi inebriava pesantemente. Le altre all’esterno, in cui quell’odore si mesciava ad altro, a quello delle piante del giardino, dei gerani sulle balaustre, delle piante di limoni, della pergola.
Del Dark Flake e del Dark Birds Eye ho parlato a suo tempo. Dell’Ennerdale ne scrivo per la prima volta, non avendone mai trattato prima e i motivi che mi hanno spinto a non trattarne fino ad oggi sono proprio quelli che trovano giustificazione in questo nuovo articolo. L’Ennerdale, per chi scrive, non è solo un soapy composto (al più dell’80%) di un Virginia tra i migliori al mondo, non è solo una latta da cinquanta grammi con cui si esce dalla tabaccheria : è come il proiettore di un vecchio cinema che spara sullo schermo immagini di un tempo passato, di persone che, tra queste, alcune sono ormai solo bei ricordi. Come del resto fanno parte di questa memoria i mille profumi che questo sprigiona. Parlare di questo soapy made in G&H, in termini canonici, come detto mi è impossibile. Potrei dire solo che è buono, che come un soapy che si rispetti annovera tutta la pletora dell’aromatizzazione all’inglese, che l’aroma floreale, di geranio, e di “sapone”, come dicono certi, mi è diventato con il tempo insostituibile. Il resto è tempo perso, poiché il proprio circo aromatico mi riporta a tutto il mix dei profumi e degli odori che sanno, e possono vivere, solo a livello inconscio. La prima volta che lo acquistai, già convinto del Dark Flake, scoprii un flake delizioso. Senza se e senza ma. Me ne “impipai” altamente della diabolica natura impestante che si ritiene che abbia — e non proprio a torto. E dopo il primo giro di prova in una pipa di pannocchia — tanto per tener fede allo scrupolo del moderno fumatore che legge su internet — mi persuasi a caricarlo in una Dunhill Shell 3103 che da poco avevo acquistato, nuova e lucida, tirata a festa. Nera come gli smoking ne «Il Cacciatore». Semplice e pulita, classica come i vestiti dei miei parenti nei giorni di festa. Fumarci in tal senso è il mio personalissimo omaggio agli abiti del matrimonio di uno dei film più belli che sia mai stato girato, un omaggio alla memoria degli uomini della mia famiglia nelle loro giacche nere o grigio scuro, con l’immancabile drink in mano. Un omaggio ai profumi dell’acqua di Colonia che mi permettono di ricordare all’istante i momenti di festa. Il mio modo per omaggiare quel genere di serietà festosa e quello di manifestare distacco verso gli orrendi costumi delle nuove leve, che menano incuranti l’assalto alla festa famigliare sciamando con il cellulare in mano al ritmo della (mal)tollerata sconcezza della musica trap. Il mio modo di rivivere un altro tempo, scandito da quella mescolanza di Virginia e di Burley irrigata all’inglese che fanno dell’Ennerdale il best of dei tabacchi della memoria. La mia occasione per continuare ad ammirare le immagini che pur con il passare del tempo non si vanno sbiadendo. A tenerle vivide mi basta una carica di Ennerdale, o al limite, di qualche altro contenitore di kendal scent, una Shell tirata a lucido con un qualsiasi panno pensato per tale scopo. La bellezza malinconica di poter tornare ragazzino in mezzo ai completi animati, alle cravatte e ai farfallini. La statura per poter tornare a guardare dal basso i bicchieri, il loro dondolare e luccicare. Per sentire ancora le mani che mi scompigliano i capelli, che con il tempo stanno diventando come quelli di John Cazale. Per ritrovarmi nei miei ricordi, e per farci cantare sopra, come ne «Il Cacciatore», niente di meno che Frankie Valli. Altra hit però, di qualche anno dopo, e non con la stessa verve di quell’irresistibile «I love you baby!». Più mansueta, più dolce, più malinconica. Quella che fa : «So close, so close and yet so far…».