Il soapy della memoria

Deer-Hunter

Ai tempi in cui vidi per la prima volta «The Deer Hunter» di Michael Cimino ne rimasi positivamente frastornato. Molti tengono in considerazione tale film — taluni anche polemicamente — per le scene che restituiscono la crudezza e l’ignoto della propria sorte concretizzate dal buon Cimino con le immagini che descrivono dei frammenti della guerra in Vietnam. Sebbene questo aspetto per chi scrive non sia affatto secondario — prima di vedere questo film non avevo idea di cosa potesse essere la «roulette russa» (l’ho visto abbastanza presto) — ciò che ho amato sin dalla prima visione (e non saprei dire quante volte lo abbia rivisto ancora) sono le gioiose e conviviali scene iniziali che introducono il terribile destino di una comitiva di immigrati russi e scherzosi americani della Pennsylvania. Sin da giovanotto, nei film, guardavo con curiosità alcuni dettagli. Tra questi, le automobili dei protagonisti, i completi, le cravatte, gli smoking. E poi le scene che ti rimangono impresse, quelle segnate dalla musica, quelle in cui i protagonisti cantano e sono tutt’uno con la traccia sovraimpressa : nella mia immaginazione di tredicenne, da grande, avrei di certo cantato il ritornello di «Can’t Take My Eyes off You» — quell’irresistibile «I love you baby!» — giocando a biliardo in compagnia. Avrei scoperto più tardi che la realtà è ben diversa dalla bellezza cinematografica, che la maggior parte della gente gioca a biliardo in modo del tutto funereo : all’occasione — ormai più unica che rara — mi ripeto da anni che certamente non hanno mai visto «Il Cacciatore».
Con gli anni, in tanti scambi di opinioni, non ho mai fatto mistero che le scene preferite dal vostro siano quelle della “prima parte” del film, prima dell’atterraggio dei protagonisti in Vietnam. Per chi scrive, gran parte del capolavoro di Cimino è contenuto nelle scene di amicizia — non sempre “facile” — di quella comitiva di operai negli USA : scalcagnati, casinisti, tragici nella loro postura goliardica.
Se già tredicenne fui affascinato da tutto quello che Cimino — e i purosangue che formano il cast — aveva rappresentato sin nei dettagli, l’atmosfera de «Il Cacciatore» nei suoi lati più festosi non mi era del tutto estranea, così come non mi erano estranei alcuni dettagli — gli abiti, in primis — che anche se ad indossarli non era il vostro, in quanto ragazzino (un paio di pantaloni e un maglione ai tempi andavano più che bene…) ne aveva visti parecchi nell’alternarsi dei “Natali”, delle “Pasque”, dei matrimoni (come nel film…), dei battesimi e così via. E di questi ne avevo invidia, ma ne possedevo anche la consolante prospettiva che quando sarei cresciuto ne avrei avuti di miei. Ora, i personaggi che affollavano le feste di famiglia non sono mai stati ospiti “raffinati”, ma piuttosto nella media. Alcuni goliardici — ed anche vagamente somiglianti a quelli del capolavoro di Cimino — altri certamente più seri, ma erano comunque quasi tutti, più o meno, degli operai vestiti a festa — anche questo come nel film di Cimino. Questo particolare, che poi donava la loro vera personalità a quegli abiti, non l’ho mai dimenticato e ancora oggi è un mio pallino. Non mi intendo di moda, anzi, della cosiddetta «moda» non ne capisco nulla. Come mio padre, come mio nonno, come mio zio e come altri, mi basta sapere che in alcune occasioni “serie” (anche se si fa “casino”) basta un completo scuro, sobrio e meglio se nero. La mia prima volta, quando poco più che maggiorenne mi ritrovai ad una festa che non contemplava solo la presenza di ragazzi — ma anche di molti famigliari del festeggiato — riuscii a strappare a mio padre un suo completo che da tempo mi piaceva vederglielo addosso, e dato che le occasioni per indossarlo non erano poi molte, e il completo aveva ancora vita molto breve, sembrava fosse stato comprato per me, per quell’occasione. Le taglie, certamente, erano sovrapponibili e ancora oggi che di anni ne ho una decina in più, qualcosa di mio e qualcosa di suo va e viene. Quando poco tempo fa, quel completo grigio della mia prima volta saltò di nuovo fuori — moderno perché classico nella sua semplicità — e me lo ritrovai addosso, come allora con la stessa reverenza verso quello che è “il completo grigio” (poiché è l’unico di tale colore nel mio armadio…), la mente ha partorito tutta la pletora di ricordi che in questo momento sto mettendo per iscritto. Ma se la memoria visiva, che ha parlato fino ad adesso, risulta essere necessaria, ma non sufficiente, tali ricordi hanno come cornice un odore, ovvero l’odore che tutti quegli uomini vestiti a festa emanavano e che di quegli abiti ne era la fragranza : quella feroce dell’acqua di Colonia, il must olfattivo delle feste in famiglia e/o casalinghe. La usa, ovviamente, anche il sottoscritto, forse in maniera più moderata dei miei parenti, ma la usa con soddisfazione. Di quella soddisfazione che sola sa giustificare la memoria dei tempi che furono, anche se limata da un’acqua di Colonia di qualità migliore — forse — di quella che usava ai tempi la moltitudine dei mie famigliari maschi.
Quando i Gawith Hoggarth &co. toccarono suolo italiano, il vostro era preso da alcuni dilemmi, piaceri, e costernazioni. Il vecchio Forte non si trovava più — fui fortunato a trovarne delle stecche invendute —, con le miscele inglesi incominciavo a litigare e il Lakeland di Samuel Gawith era un tuttogiorno.
Tutto ebbe inizio recandomi in tabaccheria per acquistare i miei Samuel Gawith preferiti. Al che, conoscendo la mia propensione per il Lakeland, il gestore mi mise al corrente di avere finalmente disponibili i G&H. Inizialmente, a parte la curiosità — per altro abbastanza limitata del sottoscritto — non avevo dato molto peso all’arrivo dei trinciati di quella che per me è — forse — la migliore casata produttrice di tabacco da pipa (ormai fusasi con Samuel Gawith). Come si metterebbe una carota sotto il naso di un cavallo, il gestore fece con il vostro utilizzando una latta di Dark Flake. Mi disse di odorare. Quel profumo — che ricollegai subito all’acqua di Colonia delle feste — mi portò indietro di anni. Quel giorno nacque il mio amore per i G&H. Per il Dark Flake, per il Dark Birds Eye (aromaticamente meno forte del primo…), per l’Ennerdale (un signor soapy). Nella profumazione tipica della casata, nella maniera con la quale innaffiano i soapy, nelle mille sfumature di kendal scent ho avuto la possibilità di tornare indietro con la memoria, alle belle immagini delle famiglie unite, con gli uomini che bevono i loro drink preferiti — in casa sua mio nonno utilizzava, in tali occasioni (e non solo…) apparecchiare un tavolino con tutto quello che di alcolicamente buono vi potesse essere — e le mogli a proferire parole di rimprovero (invero del tutto inascoltate dalla controparte) circa il non esagerare (almeno) prima di sedersi a tavola. Un’altra di quelle immagini fisse e impresse a fuoco nella mia mente.
La memoria, le immagini di convivialità, sono sempre immagini che mi restituiscono tanto le feste invernali che quelle estive. Le une dentro casa, nelle “salette” in cui l’odore dell’acqua di Colonia mi inebriava pesantemente. Le altre all’esterno, in cui quell’odore si mesciava ad altro, a quello delle piante del giardino, dei gerani sulle balaustre, delle piante di limoni, della pergola.
Del Dark Flake e del Dark Birds Eye ho parlato a suo tempo. Dell’Ennerdale ne scrivo per la prima volta, non avendone mai trattato prima e i motivi che mi hanno spinto a non trattarne fino ad oggi sono proprio quelli che trovano giustificazione in questo nuovo articolo. L’Ennerdale, per chi scrive, non è solo un soapy composto (al più dell’80%) di un Virginia tra i migliori al mondo, non è solo una latta da cinquanta grammi con cui si esce dalla tabaccheria : è come il proiettore di un vecchio cinema che spara sullo schermo immagini di un tempo passato, di persone che, tra queste, alcune sono ormai solo bei ricordi. Come del resto fanno parte di questa memoria i mille profumi che questo sprigiona. Parlare di questo soapy made in G&H, in termini canonici, come detto mi è impossibile. Potrei dire solo che è buono, che come un soapy che si rispetti annovera tutta la pletora dell’aromatizzazione all’inglese, che l’aroma floreale, di geranio, e di “sapone”, come dicono certi, mi è diventato con il tempo insostituibile. Il resto è tempo perso, poiché il proprio circo aromatico mi riporta a tutto il mix dei profumi e degli odori che sanno, e possono vivere, solo a livello inconscio. La prima volta che lo acquistai, già convinto del Dark Flake, scoprii un flake delizioso. Senza se e senza ma. Me ne “impipai” altamente della diabolica natura impestante che si ritiene che abbia — e non proprio a torto. E dopo il primo giro di prova in una pipa di pannocchia — tanto per tener fede allo scrupolo del moderno fumatore che legge su internet — mi persuasi a caricarlo in una Dunhill Shell 3103 che da poco avevo acquistato, nuova e lucida, tirata a festa. Nera come gli smoking ne «Il Cacciatore». Semplice e pulita, classica come i vestiti dei miei parenti nei giorni di festa. Fumarci in tal senso è il mio personalissimo omaggio agli abiti del matrimonio di uno dei film più belli che sia mai stato girato, un omaggio alla memoria degli uomini della mia famiglia nelle loro giacche nere o grigio scuro, con l’immancabile drink in mano. Un omaggio ai profumi dell’acqua di Colonia che mi permettono di ricordare all’istante i momenti di festa. Il mio modo per omaggiare quel genere di serietà festosa e quello di manifestare distacco verso gli orrendi costumi delle nuove leve, che menano incuranti l’assalto alla festa famigliare sciamando con il cellulare in mano al ritmo della (mal)tollerata sconcezza della musica trap. Il mio modo di rivivere un altro tempo, scandito da quella mescolanza di Virginia e di Burley irrigata all’inglese che fanno dell’Ennerdale il best of dei tabacchi della memoria. La mia occasione per continuare ad ammirare le immagini che pur con il passare del tempo non si vanno sbiadendo. A tenerle vivide mi basta una carica di Ennerdale, o al limite, di qualche altro contenitore di kendal scent, una Shell tirata a lucido con un qualsiasi panno pensato per tale scopo. La bellezza malinconica di poter tornare ragazzino in mezzo ai completi animati, alle cravatte e ai farfallini. La statura per poter tornare a guardare dal basso i bicchieri, il loro dondolare e luccicare. Per sentire ancora le mani che mi scompigliano i capelli, che con il tempo stanno diventando come quelli di John Cazale. Per ritrovarmi nei miei ricordi, e per farci cantare sopra, come ne «Il Cacciatore», niente di meno che Frankie Valli. Altra hit però, di qualche anno dopo, e non con la stessa verve di quell’irresistibile «I love you baby!». Più mansueta, più dolce, più malinconica. Quella che fa : «So close, so close and yet so far…».

Balkan Mixture, o della via ritrovata

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Ai tempi in cui iniziai a fumare nella pipa, le english mixtures erano pane quotidiano : mi dilettavo con l’Early Morning o con il My Mixture, poi passai allo Squadron Leader di Samuel Gawith, che in fin dei conti rimane una delle mie preferite della suddetta tipologia. Da fumatore di english mixture — tanto per utilizzare un «parolone» — il profumo incensato del Latakia mi divenne quasi insopportabile : sono propenso a pensare che tale «fastidio» non sia stato dovuto tanto al Latakia di per sé, quanto all’impronta lasciata da sapori nettamente rustici, di cui ho largamente parlato e ai quali continuerò a dedicare del tempo. Con il tempo, nonostante estemporanei feeling piuttosto intensi e non privi di senso con prodotti annoveranti in termini pressoché insoliti il Latakia (SG Bothy Flake, per fare un esempio…) la piccola foglia di Laodicea ha smesso di profumare dal fornello delle pipe del sottoscritto. Alcuni Pease mi hanno riavvicinato, seppur con una rimarchevole cautela, alle miscele «incensate», ma se a qualcuno va riconosciuto il merito di aver riportato su «La Pipa Parlante» l’argomento Latakia coscientemente trattato, questo lo si deve alla fenomenale Gawith&Hoggarth, a cui non è possibile non tributare una profonda gratitudine in termini di serietà e qualità. Che gli strong di casa G&H facilmente reperibili sul territorio nazionale — Dark Flake e Dark Bird’s Eye — siano ben saldi sulla vetta olimpica delle personalissime preferenze di chi scrive, il Balkan Mixture si sta ritagliando uno spazio tanto solido quanto destinato ad allargarsi. Tutto questo discorso è paradossale. Si va verso il caldo, e per il sottoscritto il clima di giugno è già torrido : d’estate fumare il Latakia mi è sempre stato arduo, una vera e propria fatica di Ercole. In secondo luogo, l’interpretazione Balkan di Gawith&Hoggarth ne è equipaggiata «quanto basta», di Latakia, e qui l’antitesi con quanto fumato piacevolmente sino ad oggi è grossa quanto il K2, anche se la facilità con la quale «si discendono» le pareti del fornello in cui ho appena terminato di gustarlo, quello della Dunhill Cumberland gr.3 che si vede in foto, aggiunge altri interrogativi a quello che è già di per sé l’interrogativo centrale : “ come la mettiamo con questo benedetto Latakia? ”.

Ebbene, non saprei dire con certezza a riguardo. C’è da dire che la miscela Balkan di Gawith&Hoggarth rispetto ad altre miscele inglesi più o meno rinforzate sul versante Latakia, dello stesso, ne fa un utilizzo equilibrato, ben calcolato (se non erro non credo che vi siano dichiarazioni circa le percentuali) e comunque capace di restituire un equilibrio ricco, grasso, senza sconfinare in una fumata che si definirebbe barocca. Probabilmente non è il paragone migliore che si potrebbe fare, ma prendendo il Balkan Flake dei noti cugini Samuel Gawith — che indubbiamente il taglio gioca un ruolo di non poco conto — in tal caso, si sconfina in una ricchezza senza misura, in uno sfarzo eccessivo, in un’ampollosità dei sapori, degli aromi e in particolare del Latakia che rende difficile immaginare di poterne fare un utilizzo disinvolto, pratico, ammesso che il fumare nella pipa non sia solo un momento speciale nell’arco della giornata, quanto piuttosto un modo di fumare tout-court — tempo a disposizione permettendo —, che concepisce l’utilizzo della pipa in primis come strumento, poi come puro «momento». Già il Westminster del buon Pease aveva riportato nella giornata pipica del sottoscritto un utilizzo pacato delle miscele inglesi, ma un utilizzo quasi quotidiano, nel senso che dopo aver terminato il primo fornello, nel corso della giornata, ci si sarebbe ritrovati con la voglia di rimettere nuovamente mano alla miscela precedentemente gustata. Con il Balkan G&H le fumate stanno scorrendo, tengo il Bormioli a portata di mano, qualche pipa comincia ad essergli consacrata, come se nella mente, ormai, la lovat gruppo 3 sopra ritratta incominci ad essere associata alla miscela in questione e al Latakia in generale, «problema» che fino ad oggi non mi si era mai presentato tanto urgente, considerato che i sapori a cui sono solito tendono poco o nulla a lasciare la propria impronta nella pipa. In fin dei conti, anche la nota Lakeland scent del Dark Flake mi risulta piuttosto gradita e non compromettente, con un fornello di Cimette, che comunque sia aiuta non poco a «ripulire», dopo qualche fumata. Con sorpresa, mi sono ritrovato a dedicare una pipa esclusivamente al Latakia, novità che mi affascina, e che mi fa guardare quell’ottima Dunhill, ottima come può essere una pipa «dell’alta nobiltà», ricongiunta alle miscele che, probabilmente, ne esaltano in maniera sublime tanto le qualità che le possibilità, andando a comporre un binomio perfetto, sia nella pratica che nell’immaginazione e nella fantasia.

Come dicevo sopra, il Balkan è una miscela quasi perfetta senza essere tracotante, senza fare sfoggio di chissà quale protervia. Se dello Squadron Leader apprezzo la componente importante del Virginia, che lo rende docile rispetto a miscele più abbondanti in termini di Latakia, e se del Westminster di Pease apprezzo l’american spirit con cui viene accostato il concetto di english mixture, concordando con il lettore che mi faceva notare a proposito — e a ragione — l’alta qualità del Latakia impiegato, ma soprattutto l’eclettismo di quel red Virginia che solo a vederlo fa pensare alle praterie del Nuovo Mondo, la Balkan Gawith&Hoggarth presenta, a mio dire, una proporzione quasi perfetta degli ingredienti. Una Balkan che non è ferocemente affumicata, una miscela «all’inglese» che non ha dentro quel Latakia «appassito», che lascia un gusto smorto di affumicatura dozzinale e niente più, ma restituisce un sapore di affumicatura, di incenso, così come può immaginarlo la mente, così come ce lo si aspetterebbe, così come lo si percepisce all’apertura della tin : la foglia di Laodicea così come viene descritta, e come tale risulta essere. Il resto, ovvero Virginia, Turchi e Orientali lega benissimo e restituiscono al palato il gusto di una miscela ricca, grassa, opulenta — ma il giusto — così come la forza, che in fin dei conti è sopra una mild classicamente intesa, e lambisce i confine delle terre medie. Sono certo che in questo ultimo periodo, con la «recensione» del Westminster, e con le esplorazioni fatte in terre «balcaniche» si apra un nuovo capitolo dell’irrisolta questione Latakia. Certamente fumerò con meno diffidenza, con una maggiore predisposizione all’ascolto e senza essere prevenuto nei confronti di un’aroma che, nel proprio rifiuto, annovera presumibilmente delle componenti anche psicologiche, legate ai ricordi di vecchie fumate poco soddisfacenti e troppo noiose. Il tempo muta i gusti, forse il sottoscritto non muterà completamente in un amante delle english mixture o delle rafforzate balkan, ma se l’idillio dura — e il sospetto non è infondato —, continuerà a fumarle, senza esagerare, ma anche lontano da qualsivoglia ideologica moderazione. Sapendo come goderne, come in questa giornata in cui scrivo, contesa dal sole e dalle nuvole, guardando dal terrazzo le rondini che si librano in volo, sfrecciando ed esibendosi in mille evoluzioni, per poi tornare e nutrire la progenie che attende…

Pour en finir avec : S.G. Golden Glow

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Dopo aver scritto — facendo personalissimo ordine — dei Virginia che più gradisco, nella riflessione unitaria non ha potuto trovare spazio, benché il sottoscritto non abbia mancato di nominarlo, il Golden Glow di Samuel Gawith. Le ragioni sono pacifiche : nel confronto col suo parente più prossimo, il Bright di Gawith&Hoggarth, al traguardo del gusto personale se questo fosse analogo a quello di una corsa automobilistica, il Bright lo taglierebbe con due ruote di vantaggio.

Sarebbe inutile descrivere com’è fatto, come si presenta et cetera : sono caratteristiche ben conosciute da chiunque, dato che il prodotto è facilmente reperibile sul suolo patrio, e d’altro canto, perché rovinare la sorpresa di aprire la tin al neofita che si appresta a goderne per la prima volta : a meno che non ne sia totalmente rapito in senso «materiale», il sottoscritto preferisce preservare intatto l’effetto sorpresa, sempre ammesso che si passi per queste pagine. D’altro canto basterebbe dire che parliamo di uno tra i più biondi. Metodo che per altro ben si accorda con il «nuovo corso» con il quale ho ripreso a scrivere : non voglio essere un recensore stricto sensu, e i limiti di questo blog, del proprio status quo ante 2020 stanno tutti nella formula espressiva in bilico tra recensione tecnica e sensazioni nello svolgersi della fumata. Corso che il sottoscritto vuole ormai abbandonare per continuare a descrivere sensazioni per chi volesse leggerle e gettare uno sguardo più ampio, maggiormente discorsivo e capace di racchiudere il vario senza doversi attenere alle sbarre della recensione. Ne ho la libertà, e in fin dei conti, le sensazioni, l’immaginazione, la fantasia con le quali la pipa mi tiene compagnia sarebbero ben poco contemplate nella trasmissione a mezzo telegrafo di alcune recensioni che, a rileggerle, accennano appena ai tanti sfizi di cui lo spirito va alla cerca, nelle sensazioni crescenti del prendere in mano la pipa, persino nei momenti meno fantasiosi e abituali. Sono del parere che alcuni squarci di empirismo tabagifero che ho restituito su queste pagine, benché ancora validi, risultino necessariamente influenzati dal preciso periodo in cui furono posti in essere, difettando spesso di tutto quel contorno sensivo che incarna il fumare nella pipa : si può metterle mano in assoluto spregio del carpe diem, mossi dalle furie dell’abitudine e del vizio, eppure, per questa via, nulla si conclude in rispetto di tali premesse. A conti fatti, senza voler cadere a precipizio nell’autocompiacimento, fumare nella pipa è qualcosa di essenzialmente romantico, e non perché nell’epoca della sigaretta elettronica venga quantomeno considerato démodé  o bizzarro  — basti rammentare il commento nell’attesa di uno spettacolo fatto al sottoscritto da alcuni appena conosciuti, colti dalla meraviglia dell’atto di accendere, vale a dire di «ciò che non si vede tutti a giorni» (per altro a ragione…) — quanto per le molteplici e minuziose, a tratti poco percettibili, occasioni che la pipa offre di godere della foglia prediletta. Quanti modi di fumare mettono insieme tanto? E non è forse — il sottoscritto che parla di sé — pressocché scoperto ai propri stessi occhi che, quando le pipe giacciono incrostate alla rinfusa sulla scrivania — al pari delle penne Bic — la luna o i piedi, come il lettore ha più abitudine di dire, non sono di quelli dritti o di quelle giuste? L’oggetto racchiude più di quel che si pensi allorché inanimato, figurarsi quando vive della propria meccanica!

Ma, messa da parte questa piccola riflessione sulla pipa nel suo complesso — al quale il tabacco concorre non poco affinché la sensazione prenda piede — vediamo di dire qualcosa su questo Golden Glow.

Come detto, mi limito a dire che si tratta di uno dei più biondi in circolazione : ottima sensazione all’apertura della tin (contrariamente a quanto avvenuto per altri parenti suoi, non ne ho mai acquistato in bulk) in linea con la qualità dell’intera offerta Samuel Gawith. Ricollegandomi alla passata riflessione fatta sui Virginia, scrissi che la somiglianza con il Bright è piuttosto considerevole. Colore, corpo, evoluzioni : a modesto dire del sottoscritto, la fratellanza che vi intercorre, tra i due, è tanto visibile a occhio che riscontrabile al palato : mi rendo conto sino a che punto, scrivendone, non riesco a parlare dell’uno senza menzionare l’altro. In fin dei conti, quando iniziai a consumare il Bright, avevano luogo intervalli con il Golden, e una certa sovrapposizione rendeva l’esperimento abbastanza stuzzicante da interessare il sottoscritto. E così, ecco che al consumo più vasto del cugino Hoggarth, dopo qualche carica di questo, seguiva una carica di Gawith : ad intervalli regolari — e concedendomi più della quantità di Virginia che generalmente sono solito consumare nello scorrere quotidiano — il tentativo di districarsi tra i vapori dei due cugini andava risultando un tantino interrogativo, come ad un bivio, il cui punto biforcuto lasciava intendere che le due vie erano parimenti percorribili e fatte delle stesse fatiche. Venirne a capo, poco convinto dall’astuzia di dichiararli l’uno clone dell’altro, continuai — nel tempo — il gioco di alternanze che ormai aveva il suo perché. In fin dei conti, poteva (e lo è stato) risultare anche divertente. E così cominciai a dare seguito alla cosa, ad alternare — senza tuttavia rimuginarci troppo su — i due biondi, lasciandoli correre in santa pace, non senza proferirmi in qualche sorrissetto di approvazione per note maggiormente stimolanti o, al contrario, lasciarmi scappare qualche grugnito quando il complesso delle note aromatiche perdeva qualche punto.

Il tempo che preannuncia l’autunno fu la cornice di queste spensierate — ma vengano parimenti considerate trascorse con «un occhio aperto» — fumate bionde e leggere, quelle in cui a predominare è la sottile dolcezza di un flake di Virginia alla quale si unisce un delicato solletico sulla punta della lingua tale da renderla quasi frizzantina. Splendori dei Virginia di questa tipologia — a patto di guardarsi bene dall’irruenza, cosa non sempre facile… —, che pur non possedendo un gran corpo, ripagano attraverso una frizzantezza che basta a stimolare e a rendere la carica degna di essere portata sino in fondo al fornello mista a tutta l’accortezza che si possa utilizzare, senza neanche rendersi conto dello sforzo che si sta facendo : a dare il ritmo non è tanto la combustione — come più di qualche altra volta avviene con altre delizie, inutile negarlo… —, quanto la persistenza ed il pericoloso mutarsi in ben altro della dolce nota che scorre in orizzontale, senza essere capace di chissà quali evoluzioni (e qui la mia propensione per altri), ma occhio al decadere della stessa! L’annoso e risaputo «dispetto congenito» di tali delizie. Ho scritto che al Golden preferisco l’altro — vero, ma di poco — in virtù della maggiore complessità — modestissimo parere — che dopotutto ruota intorno allo stesso perno : nel Golden rispetto al Bright il complesso aromatico «va un po’ sotto», a volte tende ad esser un pelo poco più denso — apprezzabile di per sé — ma lascia al Gawith&Hoggarth qualche punta di complessità in più, ulteriore percettibilità di sentori erbacei e sfiziosi in cui nel caso del Golden sembrano essere rinchiusi nel magma zuccherino dal quale faticano a venir fuori, rendendo il tutto più standard — da notare che per nulla si tratta di un difetto! Laddove invece si gradisca maggiormente una certa stabilità, il Golden prevarrebbe sul Bright. Questione di gusti, di sensazioni, ma anche di apprezzamento della variazione: se il Bright mi riporta anche ad altro, a sentori maggiormente vari e vivaci, il Virginia in questione fa della sua carica zuccherina il centro di se stesso, privato delle periferie aromatiche dell’altro, ma comunque, quel che si cela nel proprio intimo, è grazia e meraviglia.

Si conclude così il capitolo che da tempo avevo in mente di buttar giù tenendo insieme — più o meno — i Virginia che più ho gradito e fumato delle due maggiori realtà di Kendal : credo di aver cercato di portare a termine piuttosto dignitosamente la mia esperienza alle prese con tali flake. In seguito, volgerò la mia attività narrativa verso altre tipologie di tabacco che seppur già affrontate meritano di essere «rinverdite», nonché verso altro che non ha ancora — immeritatamente — trovato spazio su queste pagine.

 

Avant et arriére (Gli altri e il Gawith Hoggarth Bright CR Flake)

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Il sottoscritto non scrive da quasi un paio d’anni. Come detto nelle considerazioni sul Westminster di Pease, di appunti, bozze, riflessioni lasciate ai loro tre quarti etc., ne possiede a bizzeffe. Del Bright avrei dovuto parlarne a seguito e come prosieguo delle riflessioni a proposito dei cugini SG : Full Virginia Flake, Sam’s Flake, Best Brown. Ai tempi rimandai l’imminente completamento delle riflessioni su questo flake poiché credevo riuscire nell’intento di concluderle e pubblicarle di lì a breve : quando si dice “fare i conti senza l’oste” …

Con rammarico mi trovo a dover parlare – per altro con un ritardo mostruoso – di questo flake. Come detto poc’anzi, l’obiettivo originario di tali considerazioni era quello di poter costituire un legame analitico con i cugini appena menzionati. Quanto Virginia – e di quale casata – ho fumato negli ultimi tempi o quantomeno nei “tempi giusti” per poter tessere la tela di quella che più che una comparazione (alcune sono in programma, alle quali pertanto dovrò metter mano…) voleva essere un tentativo di visione complessiva de “i Quattro dell’Ave Maria“, dei miei Virginia flakes maggiormente graditi? L’idea alla base delle considerazioni sul Bright voleva dare luogo, partendo da esso, ad una visione d’insieme del gradimento personale in materia di tali pressati più o meno blonds. In termini di “scorta”, il quartetto di cui si disquisisce pur perdendo e riacquistando nel tempo trascorso questo o quel componente, ha goduto di garanzia della propria presenza in cambusa grazie alla salvaguardia di dovuti “rimpiazzi”. Dall’esperienza maturata dal dì che fumo di questi Virginia, se ne potrebbe in ogni caso ricavare un’interessante visione d’insieme, che d’altro canto toccherà comunque ai miei manzoniani lettori giudicarla come tale. Come e in quali condizioni si sia arrivati a questo punto, preferisco mantenere l’idea originaria di trattare il Bright all’interno di un quadro più ampio.

Dalle scorse riflessioni sul Full, sul Sam’s e sul Best Brown di Samuel Gawith è passato del tempo. Ciò che ho scritto a riguardo della trilogia menzionata resta tale – seppur con qualche aggiustamento. Varrebbe la pena, preliminarmente, di ricordare che per il sottoscritto pressati di questo tipo non sono dei “tuttogiorno” – ruolo concesso alle Cimette MTB in purezza o ad alcuni strong  inglesi, quando non ad un buon Tornabuoni – piuttosto dei “momenti”, dei nettari per i quali ritaglio fette di tempo che vado a dedicare loro. Che si voglia rimuginare o meno, il Virginia credo possa venir considerato la tipologia del “lento scorrere”, della fumata calma e lunga : pena una repentina perdita di sapore associata a vapori orticanti che possono rendere la nostra lingua una fetta di brasato. Dunque si procede “a fil di fumo”, indiscutibilmente, cosa non sempre facile – tutt’altro! – per chi scrive : il “fil di fumo” non rientra certo nelle mie prerogative naturali di pipatore… Ma al di là del momento di calma piatta, alcuni di questi flake si sono dimostrati validissimi compagni di scoperte.

Avrei piacere di procedere come segue : rispolverare per quanto possibile le peculiarietà di ogni componente della trilogia (Samuel Gawith); passare alla descrizione del Bright di Hoggarth per finire con il collocarlo – considerato il grado di imprecisione che potrebbe necessariamente comportare siffatta cosa – all’interno del quadro organico che vanno a comporre “i Quattro dell’Ave Maria“. Se tale tentativo potrebbe tranquillamente anche non avere senso, personalmente, ritengo e ho ritenuto tale tentativo di delucidazione e di inquadramento piuttosto stimolante. Affermare “preferisco questo a quello poiché questo non è quello” risulta essere un assioma limpidamente tanto indiscutibile che inaggirabile, a ragion veduta se questo e quello siano ad esempio rispettivamente le Cimette MTB e il Commonwealth, ma se ad esserlo fossero tabacchi molto simili, addirittura quasi identici se si parla di categoria e taglio, l’affermazione di cui sopra meriterebbe un pizzico di giustificazione, una lancia – o forse due – spezzata in favore di ciò che si preferisce. Vediamo di ricapitolare :

Il Full Virginia Flake. Difficile dire se sia il più fumato dei tre, di certo il più celeberrimo : basti pensare quanto attiri  – packaging aiutando – colui che è alle prime armi con la pipa. La fama della propria incombustibilità procede di pari di passo con quella della propria verve nettarina : cose che, fatti i conti con l’assoluta soggettività di chi pipa, possono essere più o meno prossime ad un dato pressoché reale – conto tenuto degli innumerevoli fattori che vanno presi in considerazione – ma pertanto, lontane dal potersi fregiare della verità. Rispetto agli altri due Gawith, è di certo il più “carico”. Flavour tonkato a parte per il Sam’s, che lo rende il più eclettico dei tre, il Full è il più corposo del trittico. Già dall’aspetto, dal colore. La denominazione full, a bene interpretarla, dovrebbe sgomberare il campo da equivoci vari : il flake è full per quanto riesca possibile di esserlo ad un prodotto di tale alchimia. Detto in altri termini, non in senso assoluto, quanto piuttosto in ciò che è relativo ai ceppi di tali composizioni. Full per un buon Virginia : la pienezza è incontestabile, il ventaglio aromatico corposo, a patto di inseguirlo sulle ali della moderatezza. Vale anche per gli altri tre e per i Virginia in generale : le proprie delizie vengono concesse al cavaliere della misura, al pipatore che non vuole solo saziare il proprio “appetito”, ma che intende dedicare il proprio tempo, che come detto non sempre è cosa facile per il sottoscritto, di certo non da tutti i giorni ( e a volte neanche cosa da tutte le settimane…), ma che tuttavia conserva regolarmente la propria – e ormai icontestabilmente consolidata – regolarità. Come si diceva, a patto di stargli dietro, di assecondarlo nella propria lenta combustione, a patto di restituire al fumare nella pipa la propria meccanica elitaria, centellinata nel procedere a fil di fumo ed nel piacevole impegno nella dinamica del tiro prima dello spegnimento, il Full Virginia Flake esplode in una dolcezza natalizia, da giorni di festa, di tavole inebriate dall’uvetta, dai datteri o dai fichi secchi. Sul suo presunto comportamento ignifugo vi è poco da dire, che si peschi dal bulk o dalla latta non differisce in nulla da qualsiasi altro flake Samuel Gawith. Tendenzialmente di una arcana dolcezza rispetto ai suoi fratelli, è anche quello in cui lo scarto tra mielosa sapidità e mero vapore è tanto tangibile quanto più si va ad accrescere l’avidità delle sbuffate : non manca di una certa dose di rischio.

Il Best Brown Flake, il flake della nostalgia. Non mi è possibile parlarne senza render gli onori ad una pipa che non è più in mio possesso e che nella memoria – forse a più di ogni altro tabacco – gli è intimamente legata. Si tratta di una Dunhill gruppo 4, una billiard in finitura Bruyere : personalissima divagazione per la quale chiedo venia al pugno di lettori che passano di qua. Mi è possibile dire del Best Brown che complessivamente lo preferisco al fratellone Full : meno carico, ma in larga misura più gestibile. Dacché scrivevo rispetto ad esso “che vada fumato con un minimo di attenzione in più”, l’esperienza mi ha portato – per via contraria – a goderne appieno nonostante l’allentamento dell’attenzione in fumata, spesso e volontieri facendo due passi sul terrazzo con la pipa in bocca, o semplicemente in momenti di relax in cui più che dare, al tabacco, si chiede. E ciò è quello che si può chiedere a tale pressato, di venire allietati senza doverlo corteggiare, senza doverlo collocare integralmente nelle condizioni ad esso più congeniali. Che lo si fumi con più o meno attenzione, senza pertanto fare astrazione della famiglia in cui si colloca, oscilla molto meno dell’altro. Probabilmente nasconde meno ricchezze del fratellone full, i prelibati fluidi scorrono maggiormente in superficie, non occultati nelle profondità ove occorre giungere per trovarli. Più in superficie, un pelo meno intensi, vie più meno cavernosi, più facili e accessibili e forse proprio per questo nel complesso maggiormente godibili, senza dover rinunciare a chissà quale grado di succulenza. Risulta nicotinicamente di certo al di sotto dello stretto parente, ma ciò nulla toglie alla propria godibilità : se si vuol fumare qualcosa di saziante in tutti i sensi, di tale insieme di Virginia se ne potrebbe volentieri fare a meno, giacché basterebbe far saltare il coperchio ad una latta di 1792, sempre ad esserne avvezzi… Ma si va divagando, il bello e il brutto delle libere considerazioni. Rispetto alle scorse considerazione sul Best Brown, ed in virtù di un ribaltamento di piano, non lo trovo aromaticamente di per sè più complesso del Full, quanto pressappoco alla pari – senza dimenticarsi delle differenze presenti – in forza della propria accessibilità, della propria disponibilità senza troppo faticare nel tracciarne il profilo. Vale per questa facilità – e per quella ovvia qualità di chi si chiama Gawith – con la quale è capace di trasportare il fumatore in una densa pianura con i sentori tipici di un Virginia di qualità: quelle note dolci, quegli aromi di campo di cui parlai a suo tempo, i quali non posso che continuare a confermare.

Il Sam’s Flake, la pecora nera. Se questa non fosse un’illustrazione più che personale di un piccolo quadro di Virginia, a voler essere corretti, più che il suddetto dovrebbe essere presente il Golden Glow, per altro biologicamente più apparentato al Bright : ma considerato che l’oggetto del contendere non è il razionale dare luogo ad una comparazione di categoria, quanto l’irrazionale dipinto dei propri gusti, il Sam’s non può mancare. Non me ne vogliano gli aficionados del Golden Glow, se di poco gli preferisco il Bright. Tornando al Sam’s, si imbocca una deviazione che con tutte le diverse peculiarità del tragitto, scorre parallela a quella degli altri. Se è vero che “quel che va nelle maniche non può andar ne’ gheroni” (Manzoni), è altrettanto plausibile che, pur nella diversità, il Sam’s mantiene caratteri ai quali non si può ragionevolmente far torto e in ragion dei quali – senza operare chissà quale forzatura – una personale cesta del gradimento può tranquillamente accoglierlo al fianco degli altri due SG e del GH, la cui descrizione verrà a seguire. A far divergere il Sam’s tanto dai fratelli Gawith che dal cugino Hoggarth, è la profumazione che gli è propria, tonquin bean, e la composizione di Virginia e Turchi che lo rendono alquanto orientaleggiante. Ed infatti, restando saldamente fermo sulla propria base zuccherina tipica dei Virginia – e qui sta la propria giustificazione su questa pagina – le divagazioni aromatiche, i profumi floreali, la tonka in sottofondo e mai invadente, alcune note di cedro che donano brio e freschezza, rendono questo flake il più vivace del lotto, il più birichino, quello dal ventaglio aromatico più ampio. Si corre avanti e indietro, durante tutta la fumata, in compagnia di profumazioni primaverili, fresche, delle note di un prato coperto di rugiada, di erbe novelle, di primaverili boccioli che si schiudono. La carica nicotinica è sufficiente, giusta per la tipologia di prodotto quale è il Sam’s, e pertanto chiedere di più, forse, sarebbe troppo. A convincermi del Sam’s è la sua freschezza, ma anche la propria capacità – come per il Best Brown – di lasciarsi scoprire e concedere le proprie profumazioni, il proprio dono aromatico, senza che – metaforicamente parlando – ci si debba lanciare in ossequiosi salamelecchi con la pipa in bocca. Forse una carica nicotinica maggiore avrebbe cozzato con la fresca leggerezza di questo flake? Che importanza ha, così com’è è già il Sam’s

Gawith Hoggarth Bright CR Flake. Si è giunti al Virginia che ancora non ho praticamente affrontato su queste pagine. Mi ritrovo a scriverne per la prima volta, dopo alcuni fornelli ai quali ho frapposto un paio di fornelli di Golden Glow (al quale dedicherò in secondo tempo i miei pensieri, a voler essere maggiormente corretti…) e nei fatti le differenze che vi intercorrono sono di piccole dimensioni, quasi trascurabili, premettendo che ad entrambi ho dedicato pipe simili per dimensioni (una Radice Rind, una Poker di Giacomo Penzo, una Panel di Carlo Volpe, una Castello Sea Rock…) e che ritengo – nei limiti del mio parco pipe – bene attagliarsi a tale tipologia di Virginia. Cosa si può dire del Gawith Hoggarth? Innanzitutto la tipologia dei più biondi, dei Virginia come il nostro Bright sono quelli che gradisco un pelino meno, preferendo quelli con un minimo di corpo in più. L’ho fumato, mi ha appassionato – impossibile non riconoscere l’elevata qualità di fondo – tuttavia non mi ha rapito, non del tutto, quantomeno. Poco importa però di questo, si parla di un flake comunque entusiasmante, e che vale la pena acquistare e tenere in cambusa (e ci mancherebbe altro!). Rapimento a parte, le note di questo Bright sono di certo quelle di un Virginia flake nature di fattura superiore : dolcezza, sentori erbacei, un non so che di estivo, una sensazione di sentori che ho riscontrato anche nel Golden, ma che nel Bright trovo più persistente e un filo – di poco – più complessa. Sin dall’apertura della latta, sin dal momento in cui lo si va a toccare, a maneggiare, ad annusare, trasmette la golosità canonica che i Virginia di questa qualità non possono non trasmettere, e una domanda, una perplessità mi stuzzicava non poco prima di sfregarlo nei palmi delle mani e caricarlo nel fornello : ci sarà o non ci sarà quella famosa nota dei Gawith Hoggarth, in gergo (credo) chiamata Lakeland scent? L’ho trovato piuttosto canonico, piuttosto vicino alla norma che alle profumazioni tipicamente note in altri GH, e credo sia meglio così. Non saprei come si potrebbe reagire ad un Virginia biondo, naturale, decisamente profumato di tale nota. Fatto sta che non delude di certo : cremoso, zuccherino, costante. L’evoluzione in fumata non è granché ardita, tuttavia ho molto apprezzato la progressione retta, diritta, di questo Virginia. Non sempre si è alla ricerca di chissà quali evoluzioni, e la progressione lineare del Bright ne ha fatto, a gusto del sottoscritto, un Virginia di alto livello per i momenti più spensierati, durante i quali si accende la pipa e si legge un libro, contando sul fatto che, tolti i pochi accorgimenti della fumata, la trama del romanzo scorre e le papille gustative sono appagate quanto la mente… Un flake morbido, cremoso e perfino easy, che mi sarei aspettato un pelino più difficile, ma che ho trovato godibilissimo nel proprio candore.

In conclusione, non si tratta tanto di gerarchizzare il quadro d’insieme, quanto di connettere i pregi, gli utilizzi e i limiti dei Virginia in questione. Per complessità, per ventaglio aromatico, per variazione delle note saporite, il Sam’s  – negli utilizzi di chi scrive – è forse il più appagante, il più divertente. Il Best Brown – questione memoria a partein virtù di come è andato evolvendosi nelle pratiche di chi scrive ed in ragione della scoperta riguardo la propria versatilità, è il Virginia che ha coniugato complessità e spensieratezza più di ogni altro. Rispetto al Sam’s è meno ardito, ma è sempre costante, che lo si fumi con attenzione e pignoleria o che lo si fumi chiacchierando con chicchessia. Il Full Virginia Flake e il Bright si vanno a trovare agli antipodi l’uno dell’altro, tanto per lo scarto di corpo e pienezza che intercorre tra i due (a favore del Full) quanto in ragione delle rispettive accessibilità, più facile ed invitante il Bright, più impervi e impegnativi, au contraire, i percorsi del Samuel Gawith.

Da tempo volevo mettere un pochino di ordine nelle personalissime considerazioni su questi Virginia, non solo “tanto per”, ma al fine di lasciare nero su bianco la compagnia che, di tanto in tanto, questi succosi flake mi hanno regalato durante questo periodo di inattività. Al grande escluso Golden Glow, come detto, dedicherò una singola considerazione. Quando non so, ma spero di riuscirvi.

Gawith Hoggarth Dark Birds Eye

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Essere fumatori monotoni può essere atipico tra i fumatori di pipa. Io lo sono. Tendo a fumare praticamente quasi sempre le stesse tipologie di tabacco o per lunghi periodi addirittura un unico tabacco. Non sono un fumatore con la cambusa piena di chissà quali meraviglie in scatole sottovuoto, ma uno con quei tre o quattro trinciati sempre fra le mani, o meglio, nelle pipe. Fare scorta e riempire la cambusa, lasciare invecchiare e avere la pazienza di aspettare per gustare che so, un Virginia maturato a lungo, è nobile e raffinata cosa. Il giusto passatempo del fumatore di un certo tipo, di sicuro raffinato e attento a dettagli che al sottoscritto sfuggono e che forse continueranno a sfuggire. D’altra parte, però, non mi definisco un fumatore “distratto”. Tengo le mie pipe nel migliore dei modi, pulite regolarmente, accese con perizia tale da annerire pochissimo e quasi niente il rim, non negadogli mai il meritato periodo di riposo.

Amo i tabacchi di grande impatto. Amo quelli che quando si dà fuoco si sprigionano immediatamente come una mandria di cavalli selvaggi. Non avendo la minima voglia di rinunciare a questi quotidiani barlumi iniziatici, uno dei trinciati che molto difficilmente potrebbero mancare nella mia limitata cambusa è il Dark Birds Eye, meraviglia made in Gawith Hoggarth. Tra i pochi trinciati che sono abituato a tenere in casa, esso non manca mai. Rappresenta, insieme al Dark Flake della stessa casa e al Lakeland Dark dei cugini Gawith, la triade degli strong inglesi a cui sono molto più che legato.

Degli strong inglesi su questo blog ne ho parlato, tutto sommato, il giusto. Ho persino recensito strong gustosi, ma ai quali non sempre dedico il mio tempo ( un esempio è il 1792 Flake). Il Dark Birds Eye mancava, soprattutto a causa dello stop che mi sono preso  negli ultimi mesi, se non del tutto con la pipa, totalmente con la scrittura. Cose che capitano, dopotutto…

Chiedo perdono se reputate che l’abbia tirata per le lunghe.

Definirei la composizione di questo G&H un must degli scuri trinciati d’oltremanica. Uno straight Virginia curato a fuoco, meraviglia delle meraviglie. Il taglio fino ne facilita la combustione e di molto se paragonato al Dark Flake e ancor più rispetto al Lakeland. Brucia praticamente da solo, ed è qui che corre il rischio di risultare soverchiante. Lo adoro, ad esempio in una Volpe Panel, paragonabile come dimensioni ad una gruppo 4 Dunhill o giù di lì. Un trinciato duro che migliora nell’asciugarsi dell’umidità, a mio dire eccessiva, che lo caratterizza appena fuori dalla latta. La nota aromatica tipica di altri G&H si presenta sottotono, come ad esempio non è nel Dark Flake, lasciando a briglia sciolta la genuinità dello scuro Virginia che delizia con le sue note torbate e telluriche. Si spazia dall’affumicato persistente a sentori “legnosi”, risultanti dalla cura a fuoco, senza perdere quella dolcezza di fondo del buon Virginia che fa da regìa al protagonismo degli altri sentori.

L’impatto nicotinico è abbondante. A parere del sottoscritto amplificato anche dal taglio che permette una combustione andante. L’ho gustato in pipe dalla capienza media, anche se per questo trinciato preferisco spudoratamente le italiane alle inglesi ed anche alle irlandesi. Trovo che in una radica più morbida riesca davvero ad esprimersi in maniera superiore. Non che sia cattivo in una Dunhill, per carità! Ma ho trovato quella punta in più, quello slancio verso la vetta in buone pipe italiane.

Per concludere, probabilmente, il mio strong inglese preferito.

Gawith Hoggarth Dark Flake

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Gawith  Hoggarth non ha certo bisogno di presentazioni. Nel mondo del lento fumo, della produzione dei tabacchi da pipa, rappresenta uno dei mari nei quali il naufragio non solo è dolce, ma addirittura sperato. L’arrivo in Italia di alcune produzioni della storica dinastia delle terre di Kendal, è stata a parer del sottoscritto (che non ha la possibilità di fare un salto oltre confine….) una fortuna oltrechè sperata. L’offerta è varia, dai soapy ai Virginia fino agli “strong”. Tra questi, il Dark Flake rappresenta tutto quello che ci si aspetta di trovare in un prodotto di tale tipologia.

Inizialmente non so perchè, ma in riferimento a tale prodotto, ero leggermente scettico. Forse perchè il tabaccaio me lo avevo presentato simile al Lakeland, suo cugino ( di secondo grado aggiungerei io), con quello strano aroma dolciastro e profumato che niente ha a che vedere con l’odore secco e rude di sigaro, che invece il Lakeland presenta. Comunque sia, la sua composizione, mi intrigava non poco.

All’apertura della latta, quello che più colpisce è il suo strano aroma : acqua di colonia. Assolutamente. Adesso, sapevo che a Kendal con  queste cose ci giocano : nel senso che le profumazioni stile inglese sono inconfondibili nei loro blend. Tuttavia, finchè non si prova, anzi finchè non ci si ragiona(!), è impossibile capire. Il Dark Flake ( come altri prodotti GH, Ennerdale in primis) si presentano al fumatore provinciale (quale io sono), come materia sconosciuta ed entusiasmante proveniente da lontane lande. Allo stesso modo nel quale, popoli lontani, furono sommersi dalle merci più assurde nella lontana era mercantile. “Diamine, una cosa da un altro mondo”, questo pensai alla sua apertura.

Ora che, il Dark Flake lo conosco abbastanza, sono pronto a descriverlo su queste povere pagine. Non mi ha mai abbandonato da quando è approdato in terra italica, quindi, ho avuto modo di intravederne l’essenza, la quale tuttavia è ancora sfuggente e forse sfuggirà ancora a lungo. Sia questa, però, la sua prima e doverosa comparsa su questo blog.

Ufficialmente in Italia Virginia e Burley. La casa produttrice ne dà la seguente descrizione ” …a blend of dark fired Virginias, and Indian air cured tobaccos. A full bodied smoke for the seasoned pipe smoker.” Non c’è che dire, interessante è dir poco.

In fumata, è tutto da scoprire. Lavorati un po’ i pezzettoni di fetta e fatto arieggiare un quarto d’ora, è pronto per essere caricato e fumato. L’accensione parte abbastanza bene, qualche fiammifero in più ( ma è risaputo…), un minimo di attenzione con il pigino, e si parte. Rotta verso la contea del Cumbria…

E’ un tabacco la cui composizione non lascia scampo : sapori duri, forti, tellurici. Si alternano a tratti, tuttavia, ad una profumazione lieve e mai invadente, per rifluire verso una forza torbata che per quanto mi riguarda, definir goduriosa è poco. Il refluire della profumazione nell’irruenza torbata, tanto improvvisa quanto attesa è libidine pura. La fumata, scorre così, lenta e tranquilla nell’alternanza della carezza e dello schiaffo. Potrei aggiungere molte altre sensazioni, ma preferisco tagliare corto, in rispetto dell’immediatezza con cui colpisce questo tabacco.

Il Dark Flake è così. Non molto complesso,  ma mai  semplice. A metà strada tra la contemplazione profonda e il tabacco per palati duri e voraci. Difficilmente comprensibile nel breve periodo, non mancherà di affascinare e stupire gli amanti dei nettari forti.