Pour en finir avec : S.G. Golden Glow

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Dopo aver scritto — facendo personalissimo ordine — dei Virginia che più gradisco, nella riflessione unitaria non ha potuto trovare spazio, benché il sottoscritto non abbia mancato di nominarlo, il Golden Glow di Samuel Gawith. Le ragioni sono pacifiche : nel confronto col suo parente più prossimo, il Bright di Gawith&Hoggarth, al traguardo del gusto personale se questo fosse analogo a quello di una corsa automobilistica, il Bright lo taglierebbe con due ruote di vantaggio.

Sarebbe inutile descrivere com’è fatto, come si presenta et cetera : sono caratteristiche ben conosciute da chiunque, dato che il prodotto è facilmente reperibile sul suolo patrio, e d’altro canto, perché rovinare la sorpresa di aprire la tin al neofita che si appresta a goderne per la prima volta : a meno che non ne sia totalmente rapito in senso «materiale», il sottoscritto preferisce preservare intatto l’effetto sorpresa, sempre ammesso che si passi per queste pagine. D’altro canto basterebbe dire che parliamo di uno tra i più biondi. Metodo che per altro ben si accorda con il «nuovo corso» con il quale ho ripreso a scrivere : non voglio essere un recensore stricto sensu, e i limiti di questo blog, del proprio status quo ante 2020 stanno tutti nella formula espressiva in bilico tra recensione tecnica e sensazioni nello svolgersi della fumata. Corso che il sottoscritto vuole ormai abbandonare per continuare a descrivere sensazioni per chi volesse leggerle e gettare uno sguardo più ampio, maggiormente discorsivo e capace di racchiudere il vario senza doversi attenere alle sbarre della recensione. Ne ho la libertà, e in fin dei conti, le sensazioni, l’immaginazione, la fantasia con le quali la pipa mi tiene compagnia sarebbero ben poco contemplate nella trasmissione a mezzo telegrafo di alcune recensioni che, a rileggerle, accennano appena ai tanti sfizi di cui lo spirito va alla cerca, nelle sensazioni crescenti del prendere in mano la pipa, persino nei momenti meno fantasiosi e abituali. Sono del parere che alcuni squarci di empirismo tabagifero che ho restituito su queste pagine, benché ancora validi, risultino necessariamente influenzati dal preciso periodo in cui furono posti in essere, difettando spesso di tutto quel contorno sensivo che incarna il fumare nella pipa : si può metterle mano in assoluto spregio del carpe diem, mossi dalle furie dell’abitudine e del vizio, eppure, per questa via, nulla si conclude in rispetto di tali premesse. A conti fatti, senza voler cadere a precipizio nell’autocompiacimento, fumare nella pipa è qualcosa di essenzialmente romantico, e non perché nell’epoca della sigaretta elettronica venga quantomeno considerato démodé  o bizzarro  — basti rammentare il commento nell’attesa di uno spettacolo fatto al sottoscritto da alcuni appena conosciuti, colti dalla meraviglia dell’atto di accendere, vale a dire di «ciò che non si vede tutti a giorni» (per altro a ragione…) — quanto per le molteplici e minuziose, a tratti poco percettibili, occasioni che la pipa offre di godere della foglia prediletta. Quanti modi di fumare mettono insieme tanto? E non è forse — il sottoscritto che parla di sé — pressocché scoperto ai propri stessi occhi che, quando le pipe giacciono incrostate alla rinfusa sulla scrivania — al pari delle penne Bic — la luna o i piedi, come il lettore ha più abitudine di dire, non sono di quelli dritti o di quelle giuste? L’oggetto racchiude più di quel che si pensi allorché inanimato, figurarsi quando vive della propria meccanica!

Ma, messa da parte questa piccola riflessione sulla pipa nel suo complesso — al quale il tabacco concorre non poco affinché la sensazione prenda piede — vediamo di dire qualcosa su questo Golden Glow.

Come detto, mi limito a dire che si tratta di uno dei più biondi in circolazione : ottima sensazione all’apertura della tin (contrariamente a quanto avvenuto per altri parenti suoi, non ne ho mai acquistato in bulk) in linea con la qualità dell’intera offerta Samuel Gawith. Ricollegandomi alla passata riflessione fatta sui Virginia, scrissi che la somiglianza con il Bright è piuttosto considerevole. Colore, corpo, evoluzioni : a modesto dire del sottoscritto, la fratellanza che vi intercorre, tra i due, è tanto visibile a occhio che riscontrabile al palato : mi rendo conto sino a che punto, scrivendone, non riesco a parlare dell’uno senza menzionare l’altro. In fin dei conti, quando iniziai a consumare il Bright, avevano luogo intervalli con il Golden, e una certa sovrapposizione rendeva l’esperimento abbastanza stuzzicante da interessare il sottoscritto. E così, ecco che al consumo più vasto del cugino Hoggarth, dopo qualche carica di questo, seguiva una carica di Gawith : ad intervalli regolari — e concedendomi più della quantità di Virginia che generalmente sono solito consumare nello scorrere quotidiano — il tentativo di districarsi tra i vapori dei due cugini andava risultando un tantino interrogativo, come ad un bivio, il cui punto biforcuto lasciava intendere che le due vie erano parimenti percorribili e fatte delle stesse fatiche. Venirne a capo, poco convinto dall’astuzia di dichiararli l’uno clone dell’altro, continuai — nel tempo — il gioco di alternanze che ormai aveva il suo perché. In fin dei conti, poteva (e lo è stato) risultare anche divertente. E così cominciai a dare seguito alla cosa, ad alternare — senza tuttavia rimuginarci troppo su — i due biondi, lasciandoli correre in santa pace, non senza proferirmi in qualche sorrissetto di approvazione per note maggiormente stimolanti o, al contrario, lasciarmi scappare qualche grugnito quando il complesso delle note aromatiche perdeva qualche punto.

Il tempo che preannuncia l’autunno fu la cornice di queste spensierate — ma vengano parimenti considerate trascorse con «un occhio aperto» — fumate bionde e leggere, quelle in cui a predominare è la sottile dolcezza di un flake di Virginia alla quale si unisce un delicato solletico sulla punta della lingua tale da renderla quasi frizzantina. Splendori dei Virginia di questa tipologia — a patto di guardarsi bene dall’irruenza, cosa non sempre facile… —, che pur non possedendo un gran corpo, ripagano attraverso una frizzantezza che basta a stimolare e a rendere la carica degna di essere portata sino in fondo al fornello mista a tutta l’accortezza che si possa utilizzare, senza neanche rendersi conto dello sforzo che si sta facendo : a dare il ritmo non è tanto la combustione — come più di qualche altra volta avviene con altre delizie, inutile negarlo… —, quanto la persistenza ed il pericoloso mutarsi in ben altro della dolce nota che scorre in orizzontale, senza essere capace di chissà quali evoluzioni (e qui la mia propensione per altri), ma occhio al decadere della stessa! L’annoso e risaputo «dispetto congenito» di tali delizie. Ho scritto che al Golden preferisco l’altro — vero, ma di poco — in virtù della maggiore complessità — modestissimo parere — che dopotutto ruota intorno allo stesso perno : nel Golden rispetto al Bright il complesso aromatico «va un po’ sotto», a volte tende ad esser un pelo poco più denso — apprezzabile di per sé — ma lascia al Gawith&Hoggarth qualche punta di complessità in più, ulteriore percettibilità di sentori erbacei e sfiziosi in cui nel caso del Golden sembrano essere rinchiusi nel magma zuccherino dal quale faticano a venir fuori, rendendo il tutto più standard — da notare che per nulla si tratta di un difetto! Laddove invece si gradisca maggiormente una certa stabilità, il Golden prevarrebbe sul Bright. Questione di gusti, di sensazioni, ma anche di apprezzamento della variazione: se il Bright mi riporta anche ad altro, a sentori maggiormente vari e vivaci, il Virginia in questione fa della sua carica zuccherina il centro di se stesso, privato delle periferie aromatiche dell’altro, ma comunque, quel che si cela nel proprio intimo, è grazia e meraviglia.

Si conclude così il capitolo che da tempo avevo in mente di buttar giù tenendo insieme — più o meno — i Virginia che più ho gradito e fumato delle due maggiori realtà di Kendal : credo di aver cercato di portare a termine piuttosto dignitosamente la mia esperienza alle prese con tali flake. In seguito, volgerò la mia attività narrativa verso altre tipologie di tabacco che seppur già affrontate meritano di essere «rinverdite», nonché verso altro che non ha ancora — immeritatamente — trovato spazio su queste pagine.

 

Avant et arriére (Gli altri e il Gawith Hoggarth Bright CR Flake)

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Il sottoscritto non scrive da quasi un paio d’anni. Come detto nelle considerazioni sul Westminster di Pease, di appunti, bozze, riflessioni lasciate ai loro tre quarti etc., ne possiede a bizzeffe. Del Bright avrei dovuto parlarne a seguito e come prosieguo delle riflessioni a proposito dei cugini SG : Full Virginia Flake, Sam’s Flake, Best Brown. Ai tempi rimandai l’imminente completamento delle riflessioni su questo flake poiché credevo riuscire nell’intento di concluderle e pubblicarle di lì a breve : quando si dice “fare i conti senza l’oste” …

Con rammarico mi trovo a dover parlare – per altro con un ritardo mostruoso – di questo flake. Come detto poc’anzi, l’obiettivo originario di tali considerazioni era quello di poter costituire un legame analitico con i cugini appena menzionati. Quanto Virginia – e di quale casata – ho fumato negli ultimi tempi o quantomeno nei “tempi giusti” per poter tessere la tela di quella che più che una comparazione (alcune sono in programma, alle quali pertanto dovrò metter mano…) voleva essere un tentativo di visione complessiva de “i Quattro dell’Ave Maria“, dei miei Virginia flakes maggiormente graditi? L’idea alla base delle considerazioni sul Bright voleva dare luogo, partendo da esso, ad una visione d’insieme del gradimento personale in materia di tali pressati più o meno blonds. In termini di “scorta”, il quartetto di cui si disquisisce pur perdendo e riacquistando nel tempo trascorso questo o quel componente, ha goduto di garanzia della propria presenza in cambusa grazie alla salvaguardia di dovuti “rimpiazzi”. Dall’esperienza maturata dal dì che fumo di questi Virginia, se ne potrebbe in ogni caso ricavare un’interessante visione d’insieme, che d’altro canto toccherà comunque ai miei manzoniani lettori giudicarla come tale. Come e in quali condizioni si sia arrivati a questo punto, preferisco mantenere l’idea originaria di trattare il Bright all’interno di un quadro più ampio.

Dalle scorse riflessioni sul Full, sul Sam’s e sul Best Brown di Samuel Gawith è passato del tempo. Ciò che ho scritto a riguardo della trilogia menzionata resta tale – seppur con qualche aggiustamento. Varrebbe la pena, preliminarmente, di ricordare che per il sottoscritto pressati di questo tipo non sono dei “tuttogiorno” – ruolo concesso alle Cimette MTB in purezza o ad alcuni strong  inglesi, quando non ad un buon Tornabuoni – piuttosto dei “momenti”, dei nettari per i quali ritaglio fette di tempo che vado a dedicare loro. Che si voglia rimuginare o meno, il Virginia credo possa venir considerato la tipologia del “lento scorrere”, della fumata calma e lunga : pena una repentina perdita di sapore associata a vapori orticanti che possono rendere la nostra lingua una fetta di brasato. Dunque si procede “a fil di fumo”, indiscutibilmente, cosa non sempre facile – tutt’altro! – per chi scrive : il “fil di fumo” non rientra certo nelle mie prerogative naturali di pipatore… Ma al di là del momento di calma piatta, alcuni di questi flake si sono dimostrati validissimi compagni di scoperte.

Avrei piacere di procedere come segue : rispolverare per quanto possibile le peculiarietà di ogni componente della trilogia (Samuel Gawith); passare alla descrizione del Bright di Hoggarth per finire con il collocarlo – considerato il grado di imprecisione che potrebbe necessariamente comportare siffatta cosa – all’interno del quadro organico che vanno a comporre “i Quattro dell’Ave Maria“. Se tale tentativo potrebbe tranquillamente anche non avere senso, personalmente, ritengo e ho ritenuto tale tentativo di delucidazione e di inquadramento piuttosto stimolante. Affermare “preferisco questo a quello poiché questo non è quello” risulta essere un assioma limpidamente tanto indiscutibile che inaggirabile, a ragion veduta se questo e quello siano ad esempio rispettivamente le Cimette MTB e il Commonwealth, ma se ad esserlo fossero tabacchi molto simili, addirittura quasi identici se si parla di categoria e taglio, l’affermazione di cui sopra meriterebbe un pizzico di giustificazione, una lancia – o forse due – spezzata in favore di ciò che si preferisce. Vediamo di ricapitolare :

Il Full Virginia Flake. Difficile dire se sia il più fumato dei tre, di certo il più celeberrimo : basti pensare quanto attiri  – packaging aiutando – colui che è alle prime armi con la pipa. La fama della propria incombustibilità procede di pari di passo con quella della propria verve nettarina : cose che, fatti i conti con l’assoluta soggettività di chi pipa, possono essere più o meno prossime ad un dato pressoché reale – conto tenuto degli innumerevoli fattori che vanno presi in considerazione – ma pertanto, lontane dal potersi fregiare della verità. Rispetto agli altri due Gawith, è di certo il più “carico”. Flavour tonkato a parte per il Sam’s, che lo rende il più eclettico dei tre, il Full è il più corposo del trittico. Già dall’aspetto, dal colore. La denominazione full, a bene interpretarla, dovrebbe sgomberare il campo da equivoci vari : il flake è full per quanto riesca possibile di esserlo ad un prodotto di tale alchimia. Detto in altri termini, non in senso assoluto, quanto piuttosto in ciò che è relativo ai ceppi di tali composizioni. Full per un buon Virginia : la pienezza è incontestabile, il ventaglio aromatico corposo, a patto di inseguirlo sulle ali della moderatezza. Vale anche per gli altri tre e per i Virginia in generale : le proprie delizie vengono concesse al cavaliere della misura, al pipatore che non vuole solo saziare il proprio “appetito”, ma che intende dedicare il proprio tempo, che come detto non sempre è cosa facile per il sottoscritto, di certo non da tutti i giorni ( e a volte neanche cosa da tutte le settimane…), ma che tuttavia conserva regolarmente la propria – e ormai icontestabilmente consolidata – regolarità. Come si diceva, a patto di stargli dietro, di assecondarlo nella propria lenta combustione, a patto di restituire al fumare nella pipa la propria meccanica elitaria, centellinata nel procedere a fil di fumo ed nel piacevole impegno nella dinamica del tiro prima dello spegnimento, il Full Virginia Flake esplode in una dolcezza natalizia, da giorni di festa, di tavole inebriate dall’uvetta, dai datteri o dai fichi secchi. Sul suo presunto comportamento ignifugo vi è poco da dire, che si peschi dal bulk o dalla latta non differisce in nulla da qualsiasi altro flake Samuel Gawith. Tendenzialmente di una arcana dolcezza rispetto ai suoi fratelli, è anche quello in cui lo scarto tra mielosa sapidità e mero vapore è tanto tangibile quanto più si va ad accrescere l’avidità delle sbuffate : non manca di una certa dose di rischio.

Il Best Brown Flake, il flake della nostalgia. Non mi è possibile parlarne senza render gli onori ad una pipa che non è più in mio possesso e che nella memoria – forse a più di ogni altro tabacco – gli è intimamente legata. Si tratta di una Dunhill gruppo 4, una billiard in finitura Bruyere : personalissima divagazione per la quale chiedo venia al pugno di lettori che passano di qua. Mi è possibile dire del Best Brown che complessivamente lo preferisco al fratellone Full : meno carico, ma in larga misura più gestibile. Dacché scrivevo rispetto ad esso “che vada fumato con un minimo di attenzione in più”, l’esperienza mi ha portato – per via contraria – a goderne appieno nonostante l’allentamento dell’attenzione in fumata, spesso e volontieri facendo due passi sul terrazzo con la pipa in bocca, o semplicemente in momenti di relax in cui più che dare, al tabacco, si chiede. E ciò è quello che si può chiedere a tale pressato, di venire allietati senza doverlo corteggiare, senza doverlo collocare integralmente nelle condizioni ad esso più congeniali. Che lo si fumi con più o meno attenzione, senza pertanto fare astrazione della famiglia in cui si colloca, oscilla molto meno dell’altro. Probabilmente nasconde meno ricchezze del fratellone full, i prelibati fluidi scorrono maggiormente in superficie, non occultati nelle profondità ove occorre giungere per trovarli. Più in superficie, un pelo meno intensi, vie più meno cavernosi, più facili e accessibili e forse proprio per questo nel complesso maggiormente godibili, senza dover rinunciare a chissà quale grado di succulenza. Risulta nicotinicamente di certo al di sotto dello stretto parente, ma ciò nulla toglie alla propria godibilità : se si vuol fumare qualcosa di saziante in tutti i sensi, di tale insieme di Virginia se ne potrebbe volentieri fare a meno, giacché basterebbe far saltare il coperchio ad una latta di 1792, sempre ad esserne avvezzi… Ma si va divagando, il bello e il brutto delle libere considerazioni. Rispetto alle scorse considerazione sul Best Brown, ed in virtù di un ribaltamento di piano, non lo trovo aromaticamente di per sè più complesso del Full, quanto pressappoco alla pari – senza dimenticarsi delle differenze presenti – in forza della propria accessibilità, della propria disponibilità senza troppo faticare nel tracciarne il profilo. Vale per questa facilità – e per quella ovvia qualità di chi si chiama Gawith – con la quale è capace di trasportare il fumatore in una densa pianura con i sentori tipici di un Virginia di qualità: quelle note dolci, quegli aromi di campo di cui parlai a suo tempo, i quali non posso che continuare a confermare.

Il Sam’s Flake, la pecora nera. Se questa non fosse un’illustrazione più che personale di un piccolo quadro di Virginia, a voler essere corretti, più che il suddetto dovrebbe essere presente il Golden Glow, per altro biologicamente più apparentato al Bright : ma considerato che l’oggetto del contendere non è il razionale dare luogo ad una comparazione di categoria, quanto l’irrazionale dipinto dei propri gusti, il Sam’s non può mancare. Non me ne vogliano gli aficionados del Golden Glow, se di poco gli preferisco il Bright. Tornando al Sam’s, si imbocca una deviazione che con tutte le diverse peculiarità del tragitto, scorre parallela a quella degli altri. Se è vero che “quel che va nelle maniche non può andar ne’ gheroni” (Manzoni), è altrettanto plausibile che, pur nella diversità, il Sam’s mantiene caratteri ai quali non si può ragionevolmente far torto e in ragion dei quali – senza operare chissà quale forzatura – una personale cesta del gradimento può tranquillamente accoglierlo al fianco degli altri due SG e del GH, la cui descrizione verrà a seguire. A far divergere il Sam’s tanto dai fratelli Gawith che dal cugino Hoggarth, è la profumazione che gli è propria, tonquin bean, e la composizione di Virginia e Turchi che lo rendono alquanto orientaleggiante. Ed infatti, restando saldamente fermo sulla propria base zuccherina tipica dei Virginia – e qui sta la propria giustificazione su questa pagina – le divagazioni aromatiche, i profumi floreali, la tonka in sottofondo e mai invadente, alcune note di cedro che donano brio e freschezza, rendono questo flake il più vivace del lotto, il più birichino, quello dal ventaglio aromatico più ampio. Si corre avanti e indietro, durante tutta la fumata, in compagnia di profumazioni primaverili, fresche, delle note di un prato coperto di rugiada, di erbe novelle, di primaverili boccioli che si schiudono. La carica nicotinica è sufficiente, giusta per la tipologia di prodotto quale è il Sam’s, e pertanto chiedere di più, forse, sarebbe troppo. A convincermi del Sam’s è la sua freschezza, ma anche la propria capacità – come per il Best Brown – di lasciarsi scoprire e concedere le proprie profumazioni, il proprio dono aromatico, senza che – metaforicamente parlando – ci si debba lanciare in ossequiosi salamelecchi con la pipa in bocca. Forse una carica nicotinica maggiore avrebbe cozzato con la fresca leggerezza di questo flake? Che importanza ha, così com’è è già il Sam’s

Gawith Hoggarth Bright CR Flake. Si è giunti al Virginia che ancora non ho praticamente affrontato su queste pagine. Mi ritrovo a scriverne per la prima volta, dopo alcuni fornelli ai quali ho frapposto un paio di fornelli di Golden Glow (al quale dedicherò in secondo tempo i miei pensieri, a voler essere maggiormente corretti…) e nei fatti le differenze che vi intercorrono sono di piccole dimensioni, quasi trascurabili, premettendo che ad entrambi ho dedicato pipe simili per dimensioni (una Radice Rind, una Poker di Giacomo Penzo, una Panel di Carlo Volpe, una Castello Sea Rock…) e che ritengo – nei limiti del mio parco pipe – bene attagliarsi a tale tipologia di Virginia. Cosa si può dire del Gawith Hoggarth? Innanzitutto la tipologia dei più biondi, dei Virginia come il nostro Bright sono quelli che gradisco un pelino meno, preferendo quelli con un minimo di corpo in più. L’ho fumato, mi ha appassionato – impossibile non riconoscere l’elevata qualità di fondo – tuttavia non mi ha rapito, non del tutto, quantomeno. Poco importa però di questo, si parla di un flake comunque entusiasmante, e che vale la pena acquistare e tenere in cambusa (e ci mancherebbe altro!). Rapimento a parte, le note di questo Bright sono di certo quelle di un Virginia flake nature di fattura superiore : dolcezza, sentori erbacei, un non so che di estivo, una sensazione di sentori che ho riscontrato anche nel Golden, ma che nel Bright trovo più persistente e un filo – di poco – più complessa. Sin dall’apertura della latta, sin dal momento in cui lo si va a toccare, a maneggiare, ad annusare, trasmette la golosità canonica che i Virginia di questa qualità non possono non trasmettere, e una domanda, una perplessità mi stuzzicava non poco prima di sfregarlo nei palmi delle mani e caricarlo nel fornello : ci sarà o non ci sarà quella famosa nota dei Gawith Hoggarth, in gergo (credo) chiamata Lakeland scent? L’ho trovato piuttosto canonico, piuttosto vicino alla norma che alle profumazioni tipicamente note in altri GH, e credo sia meglio così. Non saprei come si potrebbe reagire ad un Virginia biondo, naturale, decisamente profumato di tale nota. Fatto sta che non delude di certo : cremoso, zuccherino, costante. L’evoluzione in fumata non è granché ardita, tuttavia ho molto apprezzato la progressione retta, diritta, di questo Virginia. Non sempre si è alla ricerca di chissà quali evoluzioni, e la progressione lineare del Bright ne ha fatto, a gusto del sottoscritto, un Virginia di alto livello per i momenti più spensierati, durante i quali si accende la pipa e si legge un libro, contando sul fatto che, tolti i pochi accorgimenti della fumata, la trama del romanzo scorre e le papille gustative sono appagate quanto la mente… Un flake morbido, cremoso e perfino easy, che mi sarei aspettato un pelino più difficile, ma che ho trovato godibilissimo nel proprio candore.

In conclusione, non si tratta tanto di gerarchizzare il quadro d’insieme, quanto di connettere i pregi, gli utilizzi e i limiti dei Virginia in questione. Per complessità, per ventaglio aromatico, per variazione delle note saporite, il Sam’s  – negli utilizzi di chi scrive – è forse il più appagante, il più divertente. Il Best Brown – questione memoria a partein virtù di come è andato evolvendosi nelle pratiche di chi scrive ed in ragione della scoperta riguardo la propria versatilità, è il Virginia che ha coniugato complessità e spensieratezza più di ogni altro. Rispetto al Sam’s è meno ardito, ma è sempre costante, che lo si fumi con attenzione e pignoleria o che lo si fumi chiacchierando con chicchessia. Il Full Virginia Flake e il Bright si vanno a trovare agli antipodi l’uno dell’altro, tanto per lo scarto di corpo e pienezza che intercorre tra i due (a favore del Full) quanto in ragione delle rispettive accessibilità, più facile ed invitante il Bright, più impervi e impegnativi, au contraire, i percorsi del Samuel Gawith.

Da tempo volevo mettere un pochino di ordine nelle personalissime considerazioni su questi Virginia, non solo “tanto per”, ma al fine di lasciare nero su bianco la compagnia che, di tanto in tanto, questi succosi flake mi hanno regalato durante questo periodo di inattività. Al grande escluso Golden Glow, come detto, dedicherò una singola considerazione. Quando non so, ma spero di riuscirvi.