Di un esotico pensare, Cairo

cairo pease

Riuscire nel tentativo di trattare seriamente — come è indubbio che meriti — una produzione come quella del «Cairo» di G.L. Pease, trinciato di non facile lettura per chi è avvezzo alla Cimetta o al Dark Flake (e affini…) pressoché quotidianamente, è una scommessa fino all’ultimo puff. I tabacchi mild — dicitura odiata dalla burocrazia salutista — nella pletora con la quale si presentano al pubblico, mi lasciano sovente in quello stato emotivo in cui si accapigliano la curiosità verso la composizione che assume tonalità fantastiche — almeno «sulla carta», in questo caso, il mix di Virginia —, e lo scetticismo legato alla maggiore o minore generosità della carica nicotinica capace di appagarmi. Accostarsi ad un prodotto, sia esso presentato sotto varia composizione, taglio o sotto diversa cura, ma che permane in termini ricettivi sotto l’angusta e interrogativa classificazione (non ufficiale ma ufficiosa) di mild, diventa per chi scrive foriera di dubbi, incertezze, al più senso di colpa : se ci si dovesse trovare insoddisfatti alla fine della carica — per giunta di una miscela di Pease… — si pensi con quale rodimento ci si possa mettere a pastrocchiare l’opera di uno dei migliori blender su piazza, ricorrendo al solito condimento di rinforzo. Per giunta, essendomi pervenuto il «Cairo» da «oltreconfine», (non sono facilmente reperibili i pochi Pease attualmente in commercio…), e considerato che tali operazioni di recupero sono tutt’altro che facili per chi non è un grande viaggiatore come il sottoscritto — situazione che genera un’infinità di incomprensioni con chi si conosce e non ha l’accortezza di nascondere il proprio viaggio in qualche «terra promessa» — espongono al rischio di mangiarsi le mani per aver fatto tutte le fatiche diplomatiche del caso, con il risultato di aver importato il trinciato sbagliato. Immaginarsi poi di dover rispondere negativamente alla domanda perentoria, di colui o colei che si sono «stremati» nell’operazione di ricerca del prodotto in particolare, quella : “È buono eh? Con tutti i giri che ho fatto!”. Ecco che la sincerità, talvolta, può essere anche poco conveniente, così come dubbie le meraviglie della composizione «su carta» che determinano l’arrovellamento del cervello e che, allorquando viene appresa la notizia che «il pacco è in arrivo», si confondono alla frenesia di aprire, caricare, accendere… Per poi scoprire di essere appagati e piacevolmente sorpresi, oppure delusi avendo perduta una rara occasione di ritrovarsi con altro di meglio nel fornello della pipa. Coloro che leggono e si trovano nella scomoda posizione di non essere né frontalieri né modesti viaggiatori (chi scrive è uscito una sola volta dalle patrie frontiere…), credo possano ben capire le fatiche interiori — e non — di ritrovarsi a bramare ciò che esula (per motivi diversi) dal contesto nazional-tabagico.

Per orientarsi in questa personalissima descrizione del «Cairo» — tenuto conto di ciò che maggiormente gradisco e il lettore ne è a conoscenza… — occorre aggiungere qualche precisazione in più riguardo il rapporto di chi scrive con l’insieme variegato — maggiore di molto rispetto alla fascia «strong» dei trinciati — delle miscele o delle composizioni che non si adattano al minatore di turno. Apprezzo i buoni Virginia che ritengo essere, oltre che un punto di arrivo, disvelamento delle capacità tecniche maturate nell’esercizio del fumare nella pipa, ancorché soft, tuttavia dalla solida caratteristica compensatoria, vale a dire la disponibilità a rimediare alle ristrettezze dell’appagamento vizioso in virtù di bouquet aromatici che bisogna saper mantenere a galla, pena lo sfaldamento repentino della fioritura aromatica che esige una gestione delicata della fumata. Lasciarsi apprezzare attraverso carezze zuccherine, soffi campestri, odori di impasti appena sfornati, è il contraccambio per una gestione attenta, del fare della misura una neccessità e al contempo una virtù e, nell’apprezzamento più profondo dell’aroma — che attiene anche ad una durata della fumata più lunga — si vede mutare in altro quella diabolica forma di appagamento con la quale si accendono i nettari scuri, quelle dark fired leafs di cui alcune realtà di Albione hanno abbondantemente soddisfatto chi scrive.

Il «Cairo» del buon Pease è un monumento all’onestà, come del resto gran parte di altro della casata che ho avuto modo di provare, e mi conferma ciò che ho imparato a considerare come il principale elargitore di delizia nei prodotti di Pease : la base di Virginia. Nulla togliere alla qualità degli altri ingredienti, ma l’apprezzamento personalissimo di chi scrive, ogni qual volta è costretto a rintracciare il perno intorno al quale ruota tutta l’architettura della miscela fumata, nel caso di Pease, va naturalmente a quel Virginia di qualità, che in tal caso, a ben vedere, va stratificandosi già di per sé, fungendo da piedistallo per le componenti orientali e per il Perique. Di fatti, una predominanza piuttosto stratificata — in primis alla vista — della tipologia di Virginia (Pease dichiara un insieme di «orange, red and bright»…), caratterizzante una miscela che presenta tonalità di giallo-arancio — in larga parte — che muove da gradazioni più chiare a gradazioni più scure, colpo d’occhio che adoro e che prelude a vibranti delizie nonostante il taglio ribbon, che di certo alla vista non produce l’effetto oleoso di un broken flake, o di un flake tout court. Di tale appetibilità è complice anche un certo sentore che restituisce all’olfatto tanto la levigatezza del Virginia, quanto gli spigoletti della componente orientale e quella punta di Perique che svolge il proprio ruolo caratterizzando di misura accorta la miscela nel suo complesso. Difficilmente si può immaginare, sapere all’incirca cosa aspettarsi, da miscele e prodotti di questo genere. L’eclettismo e la ricchezza, componenti dei quali fanno sfoggio talune miscele che attraversano l’Atlantico, ci obbligano a lasciare a casa le certezze, e ad incontrare prodotti di questo tipo — vale altresì per il Cumberland e in misura maggiore per il Robusto (rimandendo su Pease) — senza potersi prefigurare più di tanto l’esperienza della fumata. Un po’ come quando arrivarono in Italia i Gawith Hoggarth&Co., la cui lakeland scent a tin ancora chiusa non mancò certamente di lasciare perplessi — e quasi spinti verso l’ignoto — la maggior parte dei fumatori più attenti e maggiormente inclini a girarci intorno, convinti che, prima di appiccare il fuoco, il tempo speso ad odorare la tin ancora chiusa non fosse ancora giunto al termine. Eppure, la presenza enigmatica del «Cairo» (e ripeto vale per altri della stessa fattura) fonde le inedite composizioni a cui si accosta il fumatore provinciale (come il sottoscritto…) alla complessità della struttura che annovera nel proprio seno. Ad osservarlo, ad odorarlo, rimane oscuro, inpenetrabile alla mente e all’immaginazione, eppure rende — nonostante l’invitante aspetto estetico — piuttosto imbambolati, in un procedimento di carica che sembra vissuto a rilento, quasi a voler continuare a guardarlo per capirci di più, quasi a voler perseverare nella sfida che, date le premesse non proprio a favore dell’indagatore, lascia pensare che sarebbe meglio — e magari più consono — ricorrere alla svelta all’utilizzo del fuoco. Ed infatti, fatto l’elogio del grado di umidità «giusto» che ho riscontrato nel «Cairo», in fumata, ha reso l’idea che la semplicità non sia proprio affar di questo Pease : non intesa nel senso delle difficoltà tecniche, ma nella complessità di riuscire a decifrarlo, di catalogarlo, del poterlo paragonare (non in senso stretto, occhio…) quantomeno al Cumberland, che pur è stato partorito dalla medesima genialità. Eppure, il «Cairo» è una miscela sfuggente, evasiva, che inizialmente potrebbe far credere di trovarsi dinanzi ad un trinciato che annovera una linea dell’evoluzione piuttosto costante, con qualche punta qua e là, ma non è così. Il «Cairo» è una miscela misteriosa, a tratti esoterica, la quale sembra occultare dietro di sé molto più di quello che alle prime e più saporite note vuole dare ad intendere. E qui credo vi sia in toto la genialità e la capacità di immaginare di Gregory Pease. Una miscela che alle prime fumate sembra semplice, lineare ed immediata, col tempo, sembra farsi sempre più complessa, sempre più difficile da poter capire completamente, sempre meno intellegibile ai sensi, sempre più avvolta nell’ombra, nella sensazione di ciò che potrebbe ancora trasmettere, di ciò che lascia preludere. Qualcosa che tiene in sè, ma a cui lascia avvicinare tanto e non più. Vi è una nota ricca, dolce il giusto — non proprio zuccherina — ma che resta sospesa, che tuttavia sembra potersi spingere più in là. Una nota agrumata che vi si inserisce, facendo capolino, lungo tutto il percorso del fornello. Un sentore di terre lontane, esotiche ed esoteriche allo stesso tempo. Una punta speziata (Perique, credendo di non andare errato…) a cavallo tra Medio Oriente e Louisiana, a ricordare che — come del resto la suntuosità dei Virginia — materialmente la miscela proviene dagli Stati Uniti, ma che è capace di portare a cavallo di un cammello per terre e culture che a definirle yankee non passerebbe per la testa a nessuno. È la complessità che lega le varie componenti della miscela, mista alla tendenza di ognuna a raccontare di sé, che rendono il «Cairo» un trinciato affascinante, poiché ingannatore, come un volto travisato, che si lascia scoprire a tratti, ma che lascia intendere che altri squarci, altre visioni, altre profondità potrebbero essere scorte, assaporate, vissute. Più rilassata, questa esotica miscela, dentro fornelli italiani — che nel mio parco pipe sono i più grandi —, maggiormente rotonda e con qualche grazia in più del complesso aromatico dei Virginia e degli Orientali. Nei fornelli più piccoli (intorno al gruppo 3) e più «secchi» delle pipe inglesi, risulta più acidula, a tratti più speziata — nella misura in cui comunque si nota agevolmente la differenza — e viene ridimensionato il carattere avvolgente del Virginia a favore di alcune punte speziate : in questi casi ho apprezzato maggiormente il ruolo del Perique. La forza di questa miscela è più o meno media, a seconda dei gusti. Inizialmente la sentivo più leggera, meno incisiva dal punto di vista della sazietà, ma ho potuto rivalutarla con il tempo, e comunque ciò che affascina di questo Pease, è altro.

Del «Cairo» credo di aver capito, se non proprio poco, di certo non tutto. Fermo restando tutto ciò, mi va a genio l’idea di non averlo chiaro, il «Cairo», che resta una miscela affascinante, a tratti esotica, a tratti riguardante altri contesti, altri luoghi. A cavallo tra i bazar e le lagune, a cavallo tra due mondi. Tutto questo in alcuni grammi che vanno consumandosi man mano che il fumatore cerca di carpirne l’essenza, che a mio modesto dire, potrebbe essere non una, ma molteplici.