Autunnale : St James Flake

stjames

Dopo aver trattato — all’attento lettore giudicarne il carattere esaustivo o meno — dell’insieme dei Virginia a cui maggiormente sono affezionato, mi rendo conto che, nell’aver percorso la strada per conto mio, nelle solitudini sideree di un certo modo di fumare nella pipa, mi ero perso il «concetto» adombrato da quel «The Kendal Mayor’s Collection» che occhieggia sulle latte di tale collezione, e che anche ad un amante del «Sam’s Flake» come il sottoscritto è spesso sfuggito. Credo di non asserire una scemenza se dicessi che a fronte della più tradizionale ispirazione gawithiana in fatto di Virginia flake la collection in questione rappresenti un’innovativa deviazione divenuta tuttavia un classico indiscusso. Nella mia piccola esperienza — che potrebbe tranquillamente anche tacere — questa deviazione ha incominciato a ritagliarsi nei tempi più recenti uno spazio sempre più vasto, tanto da offuscare le delizie più tradizionali delle referenze S. Gawith in campo dei Virginia più canonici. Gnoseologicamente parlando, fumare un flake di Virginia canonico, «classico», è qualcosa che ha a che vedere con la permanenza al di sopra di una certa soglia della tecnica : al di sopra, cioè, di quella minima saldatura di elementi che riguardano l’equilibrio nella carica e nella gestione di essa, quel bilanciamento costante tra accensione e riaccensione, ritmo delle tirate e utilizzo misurato del pigino. Per averne reale e completa conoscenza, l’improvvisazione è abbastanza sconsigliata. Apprestarsi a fumare una carica di Best Brown o di Full Virginia Flake con la foga, la disattenzione, la faciloneria che talvolta diventa comune al fumatore abituato, non paga quanto una fumata che ha come proprio leitmotiv l’intenzione di tirare fuori dalle pallocche di flake «impipate» tutto quello che sono capaci di concedere. Se tale è il motivo ultimo della fumata, se dipanare ogni matassa di ciò che si tiene acceso nel fornello è il fine ultimo e la condicio sine qua non del momento ritagliato al piacere, l’accostarsi cosapevolmente al segmento temporale dedicato al Virginia stricto sensu necessita di far propri i postulati di cui sopra. O almeno così la pensa il sottoscritto. Per accingersi in maniera meno totalitaria ad una buona fumata a base di Virginia in formato flake vi è necessità di condimento : la presenza di questo — comunque mai in dosi sovraccaricanti — rappresenta una piccola variazione sul tema tale da far sottilmente deviare — anche se in porzioni limitate — il sistema gnoseologico di colui che si accosta al consumo consapevole del Virginia in flake. Il condimento rappresenta un’iniezione minima di facilità, una dose non in assoluto destrutturante dell’impalcatura descritta, ma comunque distensiva, capace di scioglierne la rigidità senza stravorgerla nel suo complesso. Concettualmente avviene una mutazione che pur facendoci permanere entro una stessa forma, ne modifica il contenuto, con il risultato che tra forma e contenuto originario penetra un elemento che a questi regala espressioni diverse, più facili, meno standardizzate. Il St. James Flake è fuor di ogni dubbio — o almeno dei miei — una versione del migliore confezionamento Gawith in fatto di Virginia che pare fatto apposta per le ex-colonie : l’aggiunta del Perique a delle componenti prossime al Best Brown o al Full — magari ipotizzando un ibrido di questi, non saprei con esattezza restituisce un raffinatissimo flake che funziona, per così dire, tanto nell’Inghilterra nord-occidentale che a Saint Louis. Nonostante l’ispirazione sia vagamente americana, il St.James mantiene tutte le caratteristiche di un prodotto conservatore. Si può fare — e questa è in tal caso la grande capacità della Samuel Gawith — un flake di Virginia contaminandolo con un elemento nuovo senza perdere la propria tradizionale essenza. Tutto ciò che essenzialmente Samuel Gawith sta a significare vi è integralmente riportato. Perique o meno, è un Virginia flake SG, ma con tale contaminazione ne esce qualcosa di diversamente classico : è qualcosa di già assaporato, di già conosciuto, ma inedito al tempo stesso. Inedito nella semplicità con la quale lascia schiudere il proprio germoglio aromatico, inedito nella chiarezza con la quale i sapori si lasciano distinguere, privo di quelle esoteriche sacche che presentano i fratelli incontaminati. Il concetto che sta dietro alla «Kendal Mayor’s Collection» è troppo ampio per ridursi al St. James e ancora  insondabile se ci si arresta a questi e al Sam’s. Ma del St. James basta dire che altro non è se non la magnifica conoscenza Gawith in materia dei Virginia e la altrettanto indiscutibile sapienza della casata in campo di precisione ed equilibrio delle componenti. Se lo avete già provato, sapete a cosa faccio riferimento. In caso contrario, si tratta di Virginia e Perique, ma pensati da cervelli platonici. Come che sia, ciò di cui il sottoscritto può avere massima certezza, è la dose di appagamento che mi sta regalando come mio ultimo spasso autunnale.

Di un esotico pensare, Cairo

cairo pease

Riuscire nel tentativo di trattare seriamente — come è indubbio che meriti — una produzione come quella del «Cairo» di G.L. Pease, trinciato di non facile lettura per chi è avvezzo alla Cimetta o al Dark Flake (e affini…) pressoché quotidianamente, è una scommessa fino all’ultimo puff. I tabacchi mild — dicitura odiata dalla burocrazia salutista — nella pletora con la quale si presentano al pubblico, mi lasciano sovente in quello stato emotivo in cui si accapigliano la curiosità verso la composizione che assume tonalità fantastiche — almeno «sulla carta», in questo caso, il mix di Virginia —, e lo scetticismo legato alla maggiore o minore generosità della carica nicotinica capace di appagarmi. Accostarsi ad un prodotto, sia esso presentato sotto varia composizione, taglio o sotto diversa cura, ma che permane in termini ricettivi sotto l’angusta e interrogativa classificazione (non ufficiale ma ufficiosa) di mild, diventa per chi scrive foriera di dubbi, incertezze, al più senso di colpa : se ci si dovesse trovare insoddisfatti alla fine della carica — per giunta di una miscela di Pease… — si pensi con quale rodimento ci si possa mettere a pastrocchiare l’opera di uno dei migliori blender su piazza, ricorrendo al solito condimento di rinforzo. Per giunta, essendomi pervenuto il «Cairo» da «oltreconfine», (non sono facilmente reperibili i pochi Pease attualmente in commercio…), e considerato che tali operazioni di recupero sono tutt’altro che facili per chi non è un grande viaggiatore come il sottoscritto — situazione che genera un’infinità di incomprensioni con chi si conosce e non ha l’accortezza di nascondere il proprio viaggio in qualche «terra promessa» — espongono al rischio di mangiarsi le mani per aver fatto tutte le fatiche diplomatiche del caso, con il risultato di aver importato il trinciato sbagliato. Immaginarsi poi di dover rispondere negativamente alla domanda perentoria, di colui o colei che si sono «stremati» nell’operazione di ricerca del prodotto in particolare, quella : “È buono eh? Con tutti i giri che ho fatto!”. Ecco che la sincerità, talvolta, può essere anche poco conveniente, così come dubbie le meraviglie della composizione «su carta» che determinano l’arrovellamento del cervello e che, allorquando viene appresa la notizia che «il pacco è in arrivo», si confondono alla frenesia di aprire, caricare, accendere… Per poi scoprire di essere appagati e piacevolmente sorpresi, oppure delusi avendo perduta una rara occasione di ritrovarsi con altro di meglio nel fornello della pipa. Coloro che leggono e si trovano nella scomoda posizione di non essere né frontalieri né modesti viaggiatori (chi scrive è uscito una sola volta dalle patrie frontiere…), credo possano ben capire le fatiche interiori — e non — di ritrovarsi a bramare ciò che esula (per motivi diversi) dal contesto nazional-tabagico.

Per orientarsi in questa personalissima descrizione del «Cairo» — tenuto conto di ciò che maggiormente gradisco e il lettore ne è a conoscenza… — occorre aggiungere qualche precisazione in più riguardo il rapporto di chi scrive con l’insieme variegato — maggiore di molto rispetto alla fascia «strong» dei trinciati — delle miscele o delle composizioni che non si adattano al minatore di turno. Apprezzo i buoni Virginia che ritengo essere, oltre che un punto di arrivo, disvelamento delle capacità tecniche maturate nell’esercizio del fumare nella pipa, ancorché soft, tuttavia dalla solida caratteristica compensatoria, vale a dire la disponibilità a rimediare alle ristrettezze dell’appagamento vizioso in virtù di bouquet aromatici che bisogna saper mantenere a galla, pena lo sfaldamento repentino della fioritura aromatica che esige una gestione delicata della fumata. Lasciarsi apprezzare attraverso carezze zuccherine, soffi campestri, odori di impasti appena sfornati, è il contraccambio per una gestione attenta, del fare della misura una neccessità e al contempo una virtù e, nell’apprezzamento più profondo dell’aroma — che attiene anche ad una durata della fumata più lunga — si vede mutare in altro quella diabolica forma di appagamento con la quale si accendono i nettari scuri, quelle dark fired leafs di cui alcune realtà di Albione hanno abbondantemente soddisfatto chi scrive.

Il «Cairo» del buon Pease è un monumento all’onestà, come del resto gran parte di altro della casata che ho avuto modo di provare, e mi conferma ciò che ho imparato a considerare come il principale elargitore di delizia nei prodotti di Pease : la base di Virginia. Nulla togliere alla qualità degli altri ingredienti, ma l’apprezzamento personalissimo di chi scrive, ogni qual volta è costretto a rintracciare il perno intorno al quale ruota tutta l’architettura della miscela fumata, nel caso di Pease, va naturalmente a quel Virginia di qualità, che in tal caso, a ben vedere, va stratificandosi già di per sé, fungendo da piedistallo per le componenti orientali e per il Perique. Di fatti, una predominanza piuttosto stratificata — in primis alla vista — della tipologia di Virginia (Pease dichiara un insieme di «orange, red and bright»…), caratterizzante una miscela che presenta tonalità di giallo-arancio — in larga parte — che muove da gradazioni più chiare a gradazioni più scure, colpo d’occhio che adoro e che prelude a vibranti delizie nonostante il taglio ribbon, che di certo alla vista non produce l’effetto oleoso di un broken flake, o di un flake tout court. Di tale appetibilità è complice anche un certo sentore che restituisce all’olfatto tanto la levigatezza del Virginia, quanto gli spigoletti della componente orientale e quella punta di Perique che svolge il proprio ruolo caratterizzando di misura accorta la miscela nel suo complesso. Difficilmente si può immaginare, sapere all’incirca cosa aspettarsi, da miscele e prodotti di questo genere. L’eclettismo e la ricchezza, componenti dei quali fanno sfoggio talune miscele che attraversano l’Atlantico, ci obbligano a lasciare a casa le certezze, e ad incontrare prodotti di questo tipo — vale altresì per il Cumberland e in misura maggiore per il Robusto (rimandendo su Pease) — senza potersi prefigurare più di tanto l’esperienza della fumata. Un po’ come quando arrivarono in Italia i Gawith Hoggarth&Co., la cui lakeland scent a tin ancora chiusa non mancò certamente di lasciare perplessi — e quasi spinti verso l’ignoto — la maggior parte dei fumatori più attenti e maggiormente inclini a girarci intorno, convinti che, prima di appiccare il fuoco, il tempo speso ad odorare la tin ancora chiusa non fosse ancora giunto al termine. Eppure, la presenza enigmatica del «Cairo» (e ripeto vale per altri della stessa fattura) fonde le inedite composizioni a cui si accosta il fumatore provinciale (come il sottoscritto…) alla complessità della struttura che annovera nel proprio seno. Ad osservarlo, ad odorarlo, rimane oscuro, inpenetrabile alla mente e all’immaginazione, eppure rende — nonostante l’invitante aspetto estetico — piuttosto imbambolati, in un procedimento di carica che sembra vissuto a rilento, quasi a voler continuare a guardarlo per capirci di più, quasi a voler perseverare nella sfida che, date le premesse non proprio a favore dell’indagatore, lascia pensare che sarebbe meglio — e magari più consono — ricorrere alla svelta all’utilizzo del fuoco. Ed infatti, fatto l’elogio del grado di umidità «giusto» che ho riscontrato nel «Cairo», in fumata, ha reso l’idea che la semplicità non sia proprio affar di questo Pease : non intesa nel senso delle difficoltà tecniche, ma nella complessità di riuscire a decifrarlo, di catalogarlo, del poterlo paragonare (non in senso stretto, occhio…) quantomeno al Cumberland, che pur è stato partorito dalla medesima genialità. Eppure, il «Cairo» è una miscela sfuggente, evasiva, che inizialmente potrebbe far credere di trovarsi dinanzi ad un trinciato che annovera una linea dell’evoluzione piuttosto costante, con qualche punta qua e là, ma non è così. Il «Cairo» è una miscela misteriosa, a tratti esoterica, la quale sembra occultare dietro di sé molto più di quello che alle prime e più saporite note vuole dare ad intendere. E qui credo vi sia in toto la genialità e la capacità di immaginare di Gregory Pease. Una miscela che alle prime fumate sembra semplice, lineare ed immediata, col tempo, sembra farsi sempre più complessa, sempre più difficile da poter capire completamente, sempre meno intellegibile ai sensi, sempre più avvolta nell’ombra, nella sensazione di ciò che potrebbe ancora trasmettere, di ciò che lascia preludere. Qualcosa che tiene in sè, ma a cui lascia avvicinare tanto e non più. Vi è una nota ricca, dolce il giusto — non proprio zuccherina — ma che resta sospesa, che tuttavia sembra potersi spingere più in là. Una nota agrumata che vi si inserisce, facendo capolino, lungo tutto il percorso del fornello. Un sentore di terre lontane, esotiche ed esoteriche allo stesso tempo. Una punta speziata (Perique, credendo di non andare errato…) a cavallo tra Medio Oriente e Louisiana, a ricordare che — come del resto la suntuosità dei Virginia — materialmente la miscela proviene dagli Stati Uniti, ma che è capace di portare a cavallo di un cammello per terre e culture che a definirle yankee non passerebbe per la testa a nessuno. È la complessità che lega le varie componenti della miscela, mista alla tendenza di ognuna a raccontare di sé, che rendono il «Cairo» un trinciato affascinante, poiché ingannatore, come un volto travisato, che si lascia scoprire a tratti, ma che lascia intendere che altri squarci, altre visioni, altre profondità potrebbero essere scorte, assaporate, vissute. Più rilassata, questa esotica miscela, dentro fornelli italiani — che nel mio parco pipe sono i più grandi —, maggiormente rotonda e con qualche grazia in più del complesso aromatico dei Virginia e degli Orientali. Nei fornelli più piccoli (intorno al gruppo 3) e più «secchi» delle pipe inglesi, risulta più acidula, a tratti più speziata — nella misura in cui comunque si nota agevolmente la differenza — e viene ridimensionato il carattere avvolgente del Virginia a favore di alcune punte speziate : in questi casi ho apprezzato maggiormente il ruolo del Perique. La forza di questa miscela è più o meno media, a seconda dei gusti. Inizialmente la sentivo più leggera, meno incisiva dal punto di vista della sazietà, ma ho potuto rivalutarla con il tempo, e comunque ciò che affascina di questo Pease, è altro.

Del «Cairo» credo di aver capito, se non proprio poco, di certo non tutto. Fermo restando tutto ciò, mi va a genio l’idea di non averlo chiaro, il «Cairo», che resta una miscela affascinante, a tratti esotica, a tratti riguardante altri contesti, altri luoghi. A cavallo tra i bazar e le lagune, a cavallo tra due mondi. Tutto questo in alcuni grammi che vanno consumandosi man mano che il fumatore cerca di carpirne l’essenza, che a mio modesto dire, potrebbe essere non una, ma molteplici.

Pour en finir avec : S.G. Golden Glow

Filippo-Palizzi-La-ragazza-sulla-roccia-a-Sorrento-1871-detail

Dopo aver scritto — facendo personalissimo ordine — dei Virginia che più gradisco, nella riflessione unitaria non ha potuto trovare spazio, benché il sottoscritto non abbia mancato di nominarlo, il Golden Glow di Samuel Gawith. Le ragioni sono pacifiche : nel confronto col suo parente più prossimo, il Bright di Gawith&Hoggarth, al traguardo del gusto personale se questo fosse analogo a quello di una corsa automobilistica, il Bright lo taglierebbe con due ruote di vantaggio.

Sarebbe inutile descrivere com’è fatto, come si presenta et cetera : sono caratteristiche ben conosciute da chiunque, dato che il prodotto è facilmente reperibile sul suolo patrio, e d’altro canto, perché rovinare la sorpresa di aprire la tin al neofita che si appresta a goderne per la prima volta : a meno che non ne sia totalmente rapito in senso «materiale», il sottoscritto preferisce preservare intatto l’effetto sorpresa, sempre ammesso che si passi per queste pagine. D’altro canto basterebbe dire che parliamo di uno tra i più biondi. Metodo che per altro ben si accorda con il «nuovo corso» con il quale ho ripreso a scrivere : non voglio essere un recensore stricto sensu, e i limiti di questo blog, del proprio status quo ante 2020 stanno tutti nella formula espressiva in bilico tra recensione tecnica e sensazioni nello svolgersi della fumata. Corso che il sottoscritto vuole ormai abbandonare per continuare a descrivere sensazioni per chi volesse leggerle e gettare uno sguardo più ampio, maggiormente discorsivo e capace di racchiudere il vario senza doversi attenere alle sbarre della recensione. Ne ho la libertà, e in fin dei conti, le sensazioni, l’immaginazione, la fantasia con le quali la pipa mi tiene compagnia sarebbero ben poco contemplate nella trasmissione a mezzo telegrafo di alcune recensioni che, a rileggerle, accennano appena ai tanti sfizi di cui lo spirito va alla cerca, nelle sensazioni crescenti del prendere in mano la pipa, persino nei momenti meno fantasiosi e abituali. Sono del parere che alcuni squarci di empirismo tabagifero che ho restituito su queste pagine, benché ancora validi, risultino necessariamente influenzati dal preciso periodo in cui furono posti in essere, difettando spesso di tutto quel contorno sensivo che incarna il fumare nella pipa : si può metterle mano in assoluto spregio del carpe diem, mossi dalle furie dell’abitudine e del vizio, eppure, per questa via, nulla si conclude in rispetto di tali premesse. A conti fatti, senza voler cadere a precipizio nell’autocompiacimento, fumare nella pipa è qualcosa di essenzialmente romantico, e non perché nell’epoca della sigaretta elettronica venga quantomeno considerato démodé  o bizzarro  — basti rammentare il commento nell’attesa di uno spettacolo fatto al sottoscritto da alcuni appena conosciuti, colti dalla meraviglia dell’atto di accendere, vale a dire di «ciò che non si vede tutti a giorni» (per altro a ragione…) — quanto per le molteplici e minuziose, a tratti poco percettibili, occasioni che la pipa offre di godere della foglia prediletta. Quanti modi di fumare mettono insieme tanto? E non è forse — il sottoscritto che parla di sé — pressocché scoperto ai propri stessi occhi che, quando le pipe giacciono incrostate alla rinfusa sulla scrivania — al pari delle penne Bic — la luna o i piedi, come il lettore ha più abitudine di dire, non sono di quelli dritti o di quelle giuste? L’oggetto racchiude più di quel che si pensi allorché inanimato, figurarsi quando vive della propria meccanica!

Ma, messa da parte questa piccola riflessione sulla pipa nel suo complesso — al quale il tabacco concorre non poco affinché la sensazione prenda piede — vediamo di dire qualcosa su questo Golden Glow.

Come detto, mi limito a dire che si tratta di uno dei più biondi in circolazione : ottima sensazione all’apertura della tin (contrariamente a quanto avvenuto per altri parenti suoi, non ne ho mai acquistato in bulk) in linea con la qualità dell’intera offerta Samuel Gawith. Ricollegandomi alla passata riflessione fatta sui Virginia, scrissi che la somiglianza con il Bright è piuttosto considerevole. Colore, corpo, evoluzioni : a modesto dire del sottoscritto, la fratellanza che vi intercorre, tra i due, è tanto visibile a occhio che riscontrabile al palato : mi rendo conto sino a che punto, scrivendone, non riesco a parlare dell’uno senza menzionare l’altro. In fin dei conti, quando iniziai a consumare il Bright, avevano luogo intervalli con il Golden, e una certa sovrapposizione rendeva l’esperimento abbastanza stuzzicante da interessare il sottoscritto. E così, ecco che al consumo più vasto del cugino Hoggarth, dopo qualche carica di questo, seguiva una carica di Gawith : ad intervalli regolari — e concedendomi più della quantità di Virginia che generalmente sono solito consumare nello scorrere quotidiano — il tentativo di districarsi tra i vapori dei due cugini andava risultando un tantino interrogativo, come ad un bivio, il cui punto biforcuto lasciava intendere che le due vie erano parimenti percorribili e fatte delle stesse fatiche. Venirne a capo, poco convinto dall’astuzia di dichiararli l’uno clone dell’altro, continuai — nel tempo — il gioco di alternanze che ormai aveva il suo perché. In fin dei conti, poteva (e lo è stato) risultare anche divertente. E così cominciai a dare seguito alla cosa, ad alternare — senza tuttavia rimuginarci troppo su — i due biondi, lasciandoli correre in santa pace, non senza proferirmi in qualche sorrissetto di approvazione per note maggiormente stimolanti o, al contrario, lasciarmi scappare qualche grugnito quando il complesso delle note aromatiche perdeva qualche punto.

Il tempo che preannuncia l’autunno fu la cornice di queste spensierate — ma vengano parimenti considerate trascorse con «un occhio aperto» — fumate bionde e leggere, quelle in cui a predominare è la sottile dolcezza di un flake di Virginia alla quale si unisce un delicato solletico sulla punta della lingua tale da renderla quasi frizzantina. Splendori dei Virginia di questa tipologia — a patto di guardarsi bene dall’irruenza, cosa non sempre facile… —, che pur non possedendo un gran corpo, ripagano attraverso una frizzantezza che basta a stimolare e a rendere la carica degna di essere portata sino in fondo al fornello mista a tutta l’accortezza che si possa utilizzare, senza neanche rendersi conto dello sforzo che si sta facendo : a dare il ritmo non è tanto la combustione — come più di qualche altra volta avviene con altre delizie, inutile negarlo… —, quanto la persistenza ed il pericoloso mutarsi in ben altro della dolce nota che scorre in orizzontale, senza essere capace di chissà quali evoluzioni (e qui la mia propensione per altri), ma occhio al decadere della stessa! L’annoso e risaputo «dispetto congenito» di tali delizie. Ho scritto che al Golden preferisco l’altro — vero, ma di poco — in virtù della maggiore complessità — modestissimo parere — che dopotutto ruota intorno allo stesso perno : nel Golden rispetto al Bright il complesso aromatico «va un po’ sotto», a volte tende ad esser un pelo poco più denso — apprezzabile di per sé — ma lascia al Gawith&Hoggarth qualche punta di complessità in più, ulteriore percettibilità di sentori erbacei e sfiziosi in cui nel caso del Golden sembrano essere rinchiusi nel magma zuccherino dal quale faticano a venir fuori, rendendo il tutto più standard — da notare che per nulla si tratta di un difetto! Laddove invece si gradisca maggiormente una certa stabilità, il Golden prevarrebbe sul Bright. Questione di gusti, di sensazioni, ma anche di apprezzamento della variazione: se il Bright mi riporta anche ad altro, a sentori maggiormente vari e vivaci, il Virginia in questione fa della sua carica zuccherina il centro di se stesso, privato delle periferie aromatiche dell’altro, ma comunque, quel che si cela nel proprio intimo, è grazia e meraviglia.

Si conclude così il capitolo che da tempo avevo in mente di buttar giù tenendo insieme — più o meno — i Virginia che più ho gradito e fumato delle due maggiori realtà di Kendal : credo di aver cercato di portare a termine piuttosto dignitosamente la mia esperienza alle prese con tali flake. In seguito, volgerò la mia attività narrativa verso altre tipologie di tabacco che seppur già affrontate meritano di essere «rinverdite», nonché verso altro che non ha ancora — immeritatamente — trovato spazio su queste pagine.

 

Avant et arriére (Gli altri e il Gawith Hoggarth Bright CR Flake)

4-0

Il sottoscritto non scrive da quasi un paio d’anni. Come detto nelle considerazioni sul Westminster di Pease, di appunti, bozze, riflessioni lasciate ai loro tre quarti etc., ne possiede a bizzeffe. Del Bright avrei dovuto parlarne a seguito e come prosieguo delle riflessioni a proposito dei cugini SG : Full Virginia Flake, Sam’s Flake, Best Brown. Ai tempi rimandai l’imminente completamento delle riflessioni su questo flake poiché credevo riuscire nell’intento di concluderle e pubblicarle di lì a breve : quando si dice “fare i conti senza l’oste” …

Con rammarico mi trovo a dover parlare – per altro con un ritardo mostruoso – di questo flake. Come detto poc’anzi, l’obiettivo originario di tali considerazioni era quello di poter costituire un legame analitico con i cugini appena menzionati. Quanto Virginia – e di quale casata – ho fumato negli ultimi tempi o quantomeno nei “tempi giusti” per poter tessere la tela di quella che più che una comparazione (alcune sono in programma, alle quali pertanto dovrò metter mano…) voleva essere un tentativo di visione complessiva de “i Quattro dell’Ave Maria“, dei miei Virginia flakes maggiormente graditi? L’idea alla base delle considerazioni sul Bright voleva dare luogo, partendo da esso, ad una visione d’insieme del gradimento personale in materia di tali pressati più o meno blonds. In termini di “scorta”, il quartetto di cui si disquisisce pur perdendo e riacquistando nel tempo trascorso questo o quel componente, ha goduto di garanzia della propria presenza in cambusa grazie alla salvaguardia di dovuti “rimpiazzi”. Dall’esperienza maturata dal dì che fumo di questi Virginia, se ne potrebbe in ogni caso ricavare un’interessante visione d’insieme, che d’altro canto toccherà comunque ai miei manzoniani lettori giudicarla come tale. Come e in quali condizioni si sia arrivati a questo punto, preferisco mantenere l’idea originaria di trattare il Bright all’interno di un quadro più ampio.

Dalle scorse riflessioni sul Full, sul Sam’s e sul Best Brown di Samuel Gawith è passato del tempo. Ciò che ho scritto a riguardo della trilogia menzionata resta tale – seppur con qualche aggiustamento. Varrebbe la pena, preliminarmente, di ricordare che per il sottoscritto pressati di questo tipo non sono dei “tuttogiorno” – ruolo concesso alle Cimette MTB in purezza o ad alcuni strong  inglesi, quando non ad un buon Tornabuoni – piuttosto dei “momenti”, dei nettari per i quali ritaglio fette di tempo che vado a dedicare loro. Che si voglia rimuginare o meno, il Virginia credo possa venir considerato la tipologia del “lento scorrere”, della fumata calma e lunga : pena una repentina perdita di sapore associata a vapori orticanti che possono rendere la nostra lingua una fetta di brasato. Dunque si procede “a fil di fumo”, indiscutibilmente, cosa non sempre facile – tutt’altro! – per chi scrive : il “fil di fumo” non rientra certo nelle mie prerogative naturali di pipatore… Ma al di là del momento di calma piatta, alcuni di questi flake si sono dimostrati validissimi compagni di scoperte.

Avrei piacere di procedere come segue : rispolverare per quanto possibile le peculiarietà di ogni componente della trilogia (Samuel Gawith); passare alla descrizione del Bright di Hoggarth per finire con il collocarlo – considerato il grado di imprecisione che potrebbe necessariamente comportare siffatta cosa – all’interno del quadro organico che vanno a comporre “i Quattro dell’Ave Maria“. Se tale tentativo potrebbe tranquillamente anche non avere senso, personalmente, ritengo e ho ritenuto tale tentativo di delucidazione e di inquadramento piuttosto stimolante. Affermare “preferisco questo a quello poiché questo non è quello” risulta essere un assioma limpidamente tanto indiscutibile che inaggirabile, a ragion veduta se questo e quello siano ad esempio rispettivamente le Cimette MTB e il Commonwealth, ma se ad esserlo fossero tabacchi molto simili, addirittura quasi identici se si parla di categoria e taglio, l’affermazione di cui sopra meriterebbe un pizzico di giustificazione, una lancia – o forse due – spezzata in favore di ciò che si preferisce. Vediamo di ricapitolare :

Il Full Virginia Flake. Difficile dire se sia il più fumato dei tre, di certo il più celeberrimo : basti pensare quanto attiri  – packaging aiutando – colui che è alle prime armi con la pipa. La fama della propria incombustibilità procede di pari di passo con quella della propria verve nettarina : cose che, fatti i conti con l’assoluta soggettività di chi pipa, possono essere più o meno prossime ad un dato pressoché reale – conto tenuto degli innumerevoli fattori che vanno presi in considerazione – ma pertanto, lontane dal potersi fregiare della verità. Rispetto agli altri due Gawith, è di certo il più “carico”. Flavour tonkato a parte per il Sam’s, che lo rende il più eclettico dei tre, il Full è il più corposo del trittico. Già dall’aspetto, dal colore. La denominazione full, a bene interpretarla, dovrebbe sgomberare il campo da equivoci vari : il flake è full per quanto riesca possibile di esserlo ad un prodotto di tale alchimia. Detto in altri termini, non in senso assoluto, quanto piuttosto in ciò che è relativo ai ceppi di tali composizioni. Full per un buon Virginia : la pienezza è incontestabile, il ventaglio aromatico corposo, a patto di inseguirlo sulle ali della moderatezza. Vale anche per gli altri tre e per i Virginia in generale : le proprie delizie vengono concesse al cavaliere della misura, al pipatore che non vuole solo saziare il proprio “appetito”, ma che intende dedicare il proprio tempo, che come detto non sempre è cosa facile per il sottoscritto, di certo non da tutti i giorni ( e a volte neanche cosa da tutte le settimane…), ma che tuttavia conserva regolarmente la propria – e ormai icontestabilmente consolidata – regolarità. Come si diceva, a patto di stargli dietro, di assecondarlo nella propria lenta combustione, a patto di restituire al fumare nella pipa la propria meccanica elitaria, centellinata nel procedere a fil di fumo ed nel piacevole impegno nella dinamica del tiro prima dello spegnimento, il Full Virginia Flake esplode in una dolcezza natalizia, da giorni di festa, di tavole inebriate dall’uvetta, dai datteri o dai fichi secchi. Sul suo presunto comportamento ignifugo vi è poco da dire, che si peschi dal bulk o dalla latta non differisce in nulla da qualsiasi altro flake Samuel Gawith. Tendenzialmente di una arcana dolcezza rispetto ai suoi fratelli, è anche quello in cui lo scarto tra mielosa sapidità e mero vapore è tanto tangibile quanto più si va ad accrescere l’avidità delle sbuffate : non manca di una certa dose di rischio.

Il Best Brown Flake, il flake della nostalgia. Non mi è possibile parlarne senza render gli onori ad una pipa che non è più in mio possesso e che nella memoria – forse a più di ogni altro tabacco – gli è intimamente legata. Si tratta di una Dunhill gruppo 4, una billiard in finitura Bruyere : personalissima divagazione per la quale chiedo venia al pugno di lettori che passano di qua. Mi è possibile dire del Best Brown che complessivamente lo preferisco al fratellone Full : meno carico, ma in larga misura più gestibile. Dacché scrivevo rispetto ad esso “che vada fumato con un minimo di attenzione in più”, l’esperienza mi ha portato – per via contraria – a goderne appieno nonostante l’allentamento dell’attenzione in fumata, spesso e volontieri facendo due passi sul terrazzo con la pipa in bocca, o semplicemente in momenti di relax in cui più che dare, al tabacco, si chiede. E ciò è quello che si può chiedere a tale pressato, di venire allietati senza doverlo corteggiare, senza doverlo collocare integralmente nelle condizioni ad esso più congeniali. Che lo si fumi con più o meno attenzione, senza pertanto fare astrazione della famiglia in cui si colloca, oscilla molto meno dell’altro. Probabilmente nasconde meno ricchezze del fratellone full, i prelibati fluidi scorrono maggiormente in superficie, non occultati nelle profondità ove occorre giungere per trovarli. Più in superficie, un pelo meno intensi, vie più meno cavernosi, più facili e accessibili e forse proprio per questo nel complesso maggiormente godibili, senza dover rinunciare a chissà quale grado di succulenza. Risulta nicotinicamente di certo al di sotto dello stretto parente, ma ciò nulla toglie alla propria godibilità : se si vuol fumare qualcosa di saziante in tutti i sensi, di tale insieme di Virginia se ne potrebbe volentieri fare a meno, giacché basterebbe far saltare il coperchio ad una latta di 1792, sempre ad esserne avvezzi… Ma si va divagando, il bello e il brutto delle libere considerazioni. Rispetto alle scorse considerazione sul Best Brown, ed in virtù di un ribaltamento di piano, non lo trovo aromaticamente di per sè più complesso del Full, quanto pressappoco alla pari – senza dimenticarsi delle differenze presenti – in forza della propria accessibilità, della propria disponibilità senza troppo faticare nel tracciarne il profilo. Vale per questa facilità – e per quella ovvia qualità di chi si chiama Gawith – con la quale è capace di trasportare il fumatore in una densa pianura con i sentori tipici di un Virginia di qualità: quelle note dolci, quegli aromi di campo di cui parlai a suo tempo, i quali non posso che continuare a confermare.

Il Sam’s Flake, la pecora nera. Se questa non fosse un’illustrazione più che personale di un piccolo quadro di Virginia, a voler essere corretti, più che il suddetto dovrebbe essere presente il Golden Glow, per altro biologicamente più apparentato al Bright : ma considerato che l’oggetto del contendere non è il razionale dare luogo ad una comparazione di categoria, quanto l’irrazionale dipinto dei propri gusti, il Sam’s non può mancare. Non me ne vogliano gli aficionados del Golden Glow, se di poco gli preferisco il Bright. Tornando al Sam’s, si imbocca una deviazione che con tutte le diverse peculiarità del tragitto, scorre parallela a quella degli altri. Se è vero che “quel che va nelle maniche non può andar ne’ gheroni” (Manzoni), è altrettanto plausibile che, pur nella diversità, il Sam’s mantiene caratteri ai quali non si può ragionevolmente far torto e in ragion dei quali – senza operare chissà quale forzatura – una personale cesta del gradimento può tranquillamente accoglierlo al fianco degli altri due SG e del GH, la cui descrizione verrà a seguire. A far divergere il Sam’s tanto dai fratelli Gawith che dal cugino Hoggarth, è la profumazione che gli è propria, tonquin bean, e la composizione di Virginia e Turchi che lo rendono alquanto orientaleggiante. Ed infatti, restando saldamente fermo sulla propria base zuccherina tipica dei Virginia – e qui sta la propria giustificazione su questa pagina – le divagazioni aromatiche, i profumi floreali, la tonka in sottofondo e mai invadente, alcune note di cedro che donano brio e freschezza, rendono questo flake il più vivace del lotto, il più birichino, quello dal ventaglio aromatico più ampio. Si corre avanti e indietro, durante tutta la fumata, in compagnia di profumazioni primaverili, fresche, delle note di un prato coperto di rugiada, di erbe novelle, di primaverili boccioli che si schiudono. La carica nicotinica è sufficiente, giusta per la tipologia di prodotto quale è il Sam’s, e pertanto chiedere di più, forse, sarebbe troppo. A convincermi del Sam’s è la sua freschezza, ma anche la propria capacità – come per il Best Brown – di lasciarsi scoprire e concedere le proprie profumazioni, il proprio dono aromatico, senza che – metaforicamente parlando – ci si debba lanciare in ossequiosi salamelecchi con la pipa in bocca. Forse una carica nicotinica maggiore avrebbe cozzato con la fresca leggerezza di questo flake? Che importanza ha, così com’è è già il Sam’s

Gawith Hoggarth Bright CR Flake. Si è giunti al Virginia che ancora non ho praticamente affrontato su queste pagine. Mi ritrovo a scriverne per la prima volta, dopo alcuni fornelli ai quali ho frapposto un paio di fornelli di Golden Glow (al quale dedicherò in secondo tempo i miei pensieri, a voler essere maggiormente corretti…) e nei fatti le differenze che vi intercorrono sono di piccole dimensioni, quasi trascurabili, premettendo che ad entrambi ho dedicato pipe simili per dimensioni (una Radice Rind, una Poker di Giacomo Penzo, una Panel di Carlo Volpe, una Castello Sea Rock…) e che ritengo – nei limiti del mio parco pipe – bene attagliarsi a tale tipologia di Virginia. Cosa si può dire del Gawith Hoggarth? Innanzitutto la tipologia dei più biondi, dei Virginia come il nostro Bright sono quelli che gradisco un pelino meno, preferendo quelli con un minimo di corpo in più. L’ho fumato, mi ha appassionato – impossibile non riconoscere l’elevata qualità di fondo – tuttavia non mi ha rapito, non del tutto, quantomeno. Poco importa però di questo, si parla di un flake comunque entusiasmante, e che vale la pena acquistare e tenere in cambusa (e ci mancherebbe altro!). Rapimento a parte, le note di questo Bright sono di certo quelle di un Virginia flake nature di fattura superiore : dolcezza, sentori erbacei, un non so che di estivo, una sensazione di sentori che ho riscontrato anche nel Golden, ma che nel Bright trovo più persistente e un filo – di poco – più complessa. Sin dall’apertura della latta, sin dal momento in cui lo si va a toccare, a maneggiare, ad annusare, trasmette la golosità canonica che i Virginia di questa qualità non possono non trasmettere, e una domanda, una perplessità mi stuzzicava non poco prima di sfregarlo nei palmi delle mani e caricarlo nel fornello : ci sarà o non ci sarà quella famosa nota dei Gawith Hoggarth, in gergo (credo) chiamata Lakeland scent? L’ho trovato piuttosto canonico, piuttosto vicino alla norma che alle profumazioni tipicamente note in altri GH, e credo sia meglio così. Non saprei come si potrebbe reagire ad un Virginia biondo, naturale, decisamente profumato di tale nota. Fatto sta che non delude di certo : cremoso, zuccherino, costante. L’evoluzione in fumata non è granché ardita, tuttavia ho molto apprezzato la progressione retta, diritta, di questo Virginia. Non sempre si è alla ricerca di chissà quali evoluzioni, e la progressione lineare del Bright ne ha fatto, a gusto del sottoscritto, un Virginia di alto livello per i momenti più spensierati, durante i quali si accende la pipa e si legge un libro, contando sul fatto che, tolti i pochi accorgimenti della fumata, la trama del romanzo scorre e le papille gustative sono appagate quanto la mente… Un flake morbido, cremoso e perfino easy, che mi sarei aspettato un pelino più difficile, ma che ho trovato godibilissimo nel proprio candore.

In conclusione, non si tratta tanto di gerarchizzare il quadro d’insieme, quanto di connettere i pregi, gli utilizzi e i limiti dei Virginia in questione. Per complessità, per ventaglio aromatico, per variazione delle note saporite, il Sam’s  – negli utilizzi di chi scrive – è forse il più appagante, il più divertente. Il Best Brown – questione memoria a partein virtù di come è andato evolvendosi nelle pratiche di chi scrive ed in ragione della scoperta riguardo la propria versatilità, è il Virginia che ha coniugato complessità e spensieratezza più di ogni altro. Rispetto al Sam’s è meno ardito, ma è sempre costante, che lo si fumi con attenzione e pignoleria o che lo si fumi chiacchierando con chicchessia. Il Full Virginia Flake e il Bright si vanno a trovare agli antipodi l’uno dell’altro, tanto per lo scarto di corpo e pienezza che intercorre tra i due (a favore del Full) quanto in ragione delle rispettive accessibilità, più facile ed invitante il Bright, più impervi e impegnativi, au contraire, i percorsi del Samuel Gawith.

Da tempo volevo mettere un pochino di ordine nelle personalissime considerazioni su questi Virginia, non solo “tanto per”, ma al fine di lasciare nero su bianco la compagnia che, di tanto in tanto, questi succosi flake mi hanno regalato durante questo periodo di inattività. Al grande escluso Golden Glow, come detto, dedicherò una singola considerazione. Quando non so, ma spero di riuscirvi.

Gawith Hoggarth Dark Birds Eye

005-001-0026

Essere fumatori monotoni può essere atipico tra i fumatori di pipa. Io lo sono. Tendo a fumare praticamente quasi sempre le stesse tipologie di tabacco o per lunghi periodi addirittura un unico tabacco. Non sono un fumatore con la cambusa piena di chissà quali meraviglie in scatole sottovuoto, ma uno con quei tre o quattro trinciati sempre fra le mani, o meglio, nelle pipe. Fare scorta e riempire la cambusa, lasciare invecchiare e avere la pazienza di aspettare per gustare che so, un Virginia maturato a lungo, è nobile e raffinata cosa. Il giusto passatempo del fumatore di un certo tipo, di sicuro raffinato e attento a dettagli che al sottoscritto sfuggono e che forse continueranno a sfuggire. D’altra parte, però, non mi definisco un fumatore “distratto”. Tengo le mie pipe nel migliore dei modi, pulite regolarmente, accese con perizia tale da annerire pochissimo e quasi niente il rim, non negadogli mai il meritato periodo di riposo.

Amo i tabacchi di grande impatto. Amo quelli che quando si dà fuoco si sprigionano immediatamente come una mandria di cavalli selvaggi. Non avendo la minima voglia di rinunciare a questi quotidiani barlumi iniziatici, uno dei trinciati che molto difficilmente potrebbero mancare nella mia limitata cambusa è il Dark Birds Eye, meraviglia made in Gawith Hoggarth. Tra i pochi trinciati che sono abituato a tenere in casa, esso non manca mai. Rappresenta, insieme al Dark Flake della stessa casa e al Lakeland Dark dei cugini Gawith, la triade degli strong inglesi a cui sono molto più che legato.

Degli strong inglesi su questo blog ne ho parlato, tutto sommato, il giusto. Ho persino recensito strong gustosi, ma ai quali non sempre dedico il mio tempo ( un esempio è il 1792 Flake). Il Dark Birds Eye mancava, soprattutto a causa dello stop che mi sono preso  negli ultimi mesi, se non del tutto con la pipa, totalmente con la scrittura. Cose che capitano, dopotutto…

Chiedo perdono se reputate che l’abbia tirata per le lunghe.

Definirei la composizione di questo G&H un must degli scuri trinciati d’oltremanica. Uno straight Virginia curato a fuoco, meraviglia delle meraviglie. Il taglio fino ne facilita la combustione e di molto se paragonato al Dark Flake e ancor più rispetto al Lakeland. Brucia praticamente da solo, ed è qui che corre il rischio di risultare soverchiante. Lo adoro, ad esempio in una Volpe Panel, paragonabile come dimensioni ad una gruppo 4 Dunhill o giù di lì. Un trinciato duro che migliora nell’asciugarsi dell’umidità, a mio dire eccessiva, che lo caratterizza appena fuori dalla latta. La nota aromatica tipica di altri G&H si presenta sottotono, come ad esempio non è nel Dark Flake, lasciando a briglia sciolta la genuinità dello scuro Virginia che delizia con le sue note torbate e telluriche. Si spazia dall’affumicato persistente a sentori “legnosi”, risultanti dalla cura a fuoco, senza perdere quella dolcezza di fondo del buon Virginia che fa da regìa al protagonismo degli altri sentori.

L’impatto nicotinico è abbondante. A parere del sottoscritto amplificato anche dal taglio che permette una combustione andante. L’ho gustato in pipe dalla capienza media, anche se per questo trinciato preferisco spudoratamente le italiane alle inglesi ed anche alle irlandesi. Trovo che in una radica più morbida riesca davvero ad esprimersi in maniera superiore. Non che sia cattivo in una Dunhill, per carità! Ma ho trovato quella punta in più, quello slancio verso la vetta in buone pipe italiane.

Per concludere, probabilmente, il mio strong inglese preferito.

Samuel Gawith Full Virginia Flake

34242567

Ho fumato sporadicamente il Full Virginia Flake. Da quando ho iniziato il mio cammino sui sentieri della pipa, questo Virginia ha avuto saltuariamente il suo spazio. Devo dire la verità: fino a poco tempo fa gli preferivo volentieri altri fratelli e cugini. Non per via della propria fama ignifuga, che per altro non ho mai riscontrato, ma per una questione strettamente  di gusto. Niente di più e niente di meno : nel Full Virginia Flake non trovavo quelle caratteristiche che magari in altri fratelli o cugini riuscivo a riscontrare. Nel Sam’s, ad esempio. Tuttavia, quando la noia ci prende, spesso è seguita da quella voglia di sperimentare, di lasciarsi andare oppure di mettersi scientificamente all’opera cercando di cavare un significato ad un qualcosa che nonostante si è certi che l’abbia, ancora non lo si è compreso. Per me il significato da trovare stava in questo splendido Virginia Samuel Gawith.

Non c’ho girato attorno (al tabacco), anche se questa recensione arriva con imbarazzante ritardo rispetto alle riflessioni che hanno permesso di elaborarla. Come dicevo, questo flake l’ho preso di petto : acquistandone un bulk, mi sono messo  a fumarlo. Solo lui, ormai dovevo cavare il ragno dal buco, dovevo venirne a capo e chiarirmi una volta per tutte se per me, questo Virginia, avrebbe avuto un un senso. E posso dire di si. Un senso ce l’ha. Ed anche piuttosto ingombrante…

Il sottoscritto è un tipo da Virginia, tuttavia non di quelli che lo fumano sempre, ma piuttosto di quelli che a queste tipologia ritaglia dei pezzi di giornata in cui farli bruciare e goderne in quel tempo limitato. La prossima accensione sarà quando giungerà il suo momento. Facendo un discorso diverso con il Full, al fine di scandagliarne l’essenza, mi sono trovato a doverlo fumare praticamente a ruota libera, e così, giorno dopo giorno, qualcosa di interessante è venuto fuori. Anzi molto di più di quello che la mia diffidenza mi portava a credere, temendo più che altro di buttare del tempo non fumando ciò che in realtà avrei desiderato fumare.

Vi risparmio le solite menate sulla latta o sul bulk, il colore ecc. ecc. Del Full Virginia Flake voglio parlarne “di panza”. Perchè in fin dei conti, nonostante una certa delicatezza ingannevole, questo tabacco ha una sostanza innegabile. E’ pieno. Un biondo scuro bello pieno, ricco, addirittura sfrontato e a tratti ingannevole. Di una dolcezza zuccherina, a patto di non avere fretta nel fumarlo. Non è molto paragonabile ai suoi parenti più chiari, anzi, a patto che si rimanga all’interno della propria tipologia penso che questo Virginia si collochi dalla parte opposta rispetto agli altri. Regala l’esperienza di fumare un Virginia che al pari della maggiore pienezza sviluppa una maggiore dolcezza rispetto ai suoi parenti più prossimi : se lo si fuma con il dovuto tatto, è di una cremosa dolcezza che altrove, così nitida, non mi è capitato di riscontrare. Tuttavia si fuma sul filo del rasoio : se inizia a scaldare, ad inumidirsi oltre misura nel fornello, qualcosa arriva a compromettersi… e allora il Full Virginia Flake rischia di perdere il suo fascino…

E’ quel Virginia che fumo quando non ho altro di cui voglia impegnarmi. Nè un libro da leggere, nè una passeggiata da fare, nè voglia di “riflettere”.

Fumare, alla penombra di una finestra verso sera. Il senso di bruciare questo Virginia, sta in questo lungo ed intimo momento…

 

Oltreconfine : G.L. Pease Cumberland

cumberland-pease

Gregory Pease non  ha certo bisogno di presentazioni, benché meno di quella di un fumatore abbastanza provinciale ( ma in lenta via di “sprovincializzazione”) come il sottoscritto. Giri e intrighi di amici viaggiatori, mi permettono ( non senza incomprensioni e sbagli ) di riuscire a mettere le zampe, di tanto in tanto, su qualche nettare non importato in Italia e reperibile solo in note terre straniere.

Tra i miei desideri vi era il Cumberland di Pease. Non nego di trovarmi in difficoltà nel recensire un prodotto del genere, in quanto è molto lontano rispetto a quello che è possibile reperire in Italia : non per la qualità, perchè di tabacchi di innegabile qualità ce ne sono, tuttavia per la sua natura. Questa è la differenza, a mio parere, tra quelli reperibili in Italia (inglesi in primis) e i nettari americani che si spera arrivino un giorno….

Questo Cumberland  è superlativamente americano : a partire già dalla diversità del blend! Una base di maturi Virginia rossi arricchiti con del Kentucky ( chissà se la partita sia ancora quella invecchiata di venti anni o altro) e aggiunta di Perique…

Regala fumate fantastiche, rotonde e molto confortevoli: quasi avesse la capacità di cullarci. Di facile combustione, riesce ad esprimere al meglio la propria carica aromatica. I Virginia offrono una suntuosa  base alle note tostate tipiche del Kentucky e allo speziato del Perique. La fumata scorre semplice ed intuitiva, caratterizzandosi lungo tutto il suo percorso di una variazione tematica che ha ben pochi concorrenti : si vola sulle note del Virginia, del Kentucky e del Perique come se si venisse avvolti da un delicato ciclone… Tabacco esclusivamente da meditazione, di forza media e molto corposo questo Cumberland riesce ad esprimere al meglio le suggestioni paesaggistiche e territoriali americane : non è la prima volta che paragono un tabacco alle suggestioni che sono capaci di provocare i paesaggi… e fermandomi a riflettere, penso che il Cumberland altro non sia che dolce suggestione. Non c’è altro da aggiungere, in quanto questo per me è il Cumberland di G.L.Pease…

Sulle ali della delicatezza : Capstan Original Navy Cut

capstan_original_navy_cut_pipe_tobacco_flake_tobacco

I Virginia. Avvicinarsi a questa tipologia di tabacco non è mai facile : bisogna saperli prendere, scoprire il modo in cui fumarli e soprattutto lasciarsi andare totalmente ad essi. Il mondo dei Virginia è fatto così, lento, gentile, delicato. Non lo si può fumare come viene, nella prima pipa che ci sta sottomano. Ha bisogno di essere trattato con tutte le misure del caso, e per questo penso che, è raro godersi appieno un tabacco di tale categoria se non si è consci del fatto che nel momento, si è soli in due : il fumatore ed il tabacco.

Da tempo mi sono addentrato nel profumato mondo dei Virginia, fumandone un bel po’. E non è stato semplice capirli : se nell’approccio vi è della materialità, della mancanza di attenzione, di tatto e della faciloneria, il Virginia, rischia di trasformarsi in aria calda e basta. Non ci regala niente, chiudendosi in se stesso e lasciandoci lì a maledire un qualcosa che sa di niente.

Quando incominciai a muovere i primi passi, sapevo che questi profumati nettari sono tanto buoni quanto complessi. Decisi allora di incominciare con un tabacco che a quanto si legge non è troppo difficile per chi è alle prime armi. Se considerando il taglio del pressato, questa affermazione può essere anche vera, per quanto riguarda il gusto in  fumata mi permetto di dissentire. Il Capstan, è un Virginia molto complesso, che va fumato con molta attenzione e con molta calma, altrimenti è difficile cavarne un ragno dal buco…

Aperta la latta, si viene investiti da un odore dolce e morbido, ricorda molto quello del miele, della frutta oppure dell’uvetta. Di un bel colore biondo scuro, il taglio delle strisce è ben realizzato e fine, per quanto mi riguarda sicuramente un pregio : si sbriciola o si arrotola con estreme facilità. L’umidità è al punto giusto, anche se tirato fuori dalla confezione e fumato non presenta problemi di combustione.

In fumata, questo Capstan è da decifrare. Non nel senso che sia difficile fumarlo, quanto piuttosto trovare il ritmo giusto per coglierne le sfumature. All’accensione, prevalgono delle leggere note acidule, ma il tempo di assestarsi e rivela un sottofondo di note molto variegate. Si passa dal dolce tipico del miele ai più classici sentori erbacei che invece sono tipici di molti Virginia. Tabacco dalla modesta carica nicotinica, è possibile fumarlo in svariate occasioni. Una volta trovato il ritmo, che deve essere molto lento, questo Virginia è capace di regalare molto. Non è il Full Virginia Flake, nè un altro Samuel Gawith (nè il Best Brown o il Golden Glow), non ha quella pienezza gustosissima del Bright Gawith Hoggarth, tuttavia nella sua modestia risulta essere godibile quanto gli altri.

Un flake di Virginia che va capito, ma che sicuramente è molto più interessante di come viene spesso descritto. Fumandolo in questi rigidi giorni invernali, mi sta regalando delle sensazioni uniche.

It’s not for gentlemen : SG 1792 Flake

uomo-a-cavallo-28065

 

L’Inghilterra e la pipa. Spesso binomio di eleganza, di delicatezza, di profumazioni latakiose ed armoniose. English Mixture, già solo la sonorità linguistica del concetto ci lascia immaginare un mondo in cui fumare è sinonimo di eleganza, di raffinatezza e di buon gusto. Il giusto, senza andare oltre. Il giusto senza essere eccessivi. Già, ma l’Inghilterra non è solo questo…. Infatti, la nazione famosa per la monarchia, il colonialismo e la raffinatezza dei costumi presenta un lato della medaglia che, in qualche modo, ci dà la possibilità di osservarla (e di comprenderla) da un punto di vista totalmente capovolto : quello della working class. Storicamente, per l’appunto, l’Inghilterra con la sua rivoluzione industriale è stata la culla dello sviluppo del proletariato come classe moderna. E su questo non ci piove.

Nell’era moderna ed ultra-liberista, il fumatore di pipa è costretto a riflettere sulla discendenza dei vari blend e delle varie composizioni che allietano (e a volte inquietano) la propria giornata. Quando incominciai a decifrare questo flake Samuel Gawith, la mente entrò in modalità “macchina del tempo”. Eh si, perchè non può essere altrimenti. C’è in tutto questo tabacco un “lato cattivo”. Il lato cattivo di una nazione, il ghigno minaccioso di una natura contro un’altra. Potrei dire che esistono davvero un Dr. Jekill ed un Mister Hyde, all’interno della produzione tabagica inglese. Due punti così distanti, così antitetici che quasi potremmo asserire la totale mancanza di legami tra essi. Invece, ci ritroviamo ad avere a che fare, con delle realtà che condividono addirittura lo stesso grembo materno.

Per quanto riguarda il sottoscritto, sono stato conquistato da questo lato oscuro. Non me ne vogliano i cultori delle English Mixtures se ho preferito visitare l’Inghilterra tabagica seguendo il piano inclinato dei moderni epigoni di quelli che un tempo furono, fuoco quotidiano, nelle povere pipe sporche di sudore e di carbone.

Ma passiamo a questo 1792 Flake. Composizione classicamente tosta : Virginia e Kentucky. Aroma altrettanto caratteristico : fava di Tonka. Samuel Gawith nel suo lato più selvaggio. Aperta la tin, il taglio non “delude mai”. Fette tagliate molto alla mano, abbastanza spesse. Si sudano sette camicie per ricavarne i bei filamenti con cui adoro sfilacciare un pressato. Ma tutto sommato, se un taglio del genere può essere sopportato, niente di più azzeccato che sul 1792! Al naso si avverte distintamente una profumazione tipica dei Virginia di questa categoria. Inconfondibile il mandorlato della fava, mi lascia credere che su questo flake ci vadano un po’ pesante con l’aroma….ma è  giusto così. Non deve rendere conto a nessuno. Le sensazioni olfattive lasciano immaginare, ampiamente, come sarà in fumata.

Dopo averlo sfilacciato per bene, meglio lasciarlo un po’ arieggiare. Passaggio che giova decisamente al tabacco in fumata. L’accensione non è così immediata. Qualche fiammifero in più d’obbligo, così come un lento e parsimonioso lavoro di pigino  permettono a questo rude flake di avviarsi pian piano. Dopo un ingresso amarognolo, a tratti leggermente invadente e dopo essere riusciti ad assestarlo un poco (sia ben chiaro che il diavolo non è brutto come lo si dipinge), è capace di trasportarci lentamente all’interno del suo mondo tonkato. Si alternano a questo punto passaggi mandorlati, floreali e forse leggermente alcolici. A tratti emerge distintamente una nota che ricorda il Kentucky, per poi perdersi, quasi come miraggio nell’insieme del Virginia e del complesso aromatico. Il gusto è pieno, rotondo ed intenso, anche se non manca di spigoli e di punte. La carica nicotinica è alta, direi molto soddisfacente. Per palati e stomaci che di questo vanno alla ricerca.

Sicuramente un tabacco non per tutti, anzi, azzerderei per alcuni. Non è il Lakeland, nè tantomeno il Dark Flake… e neanche ha molta affinità con altri nettari del genere. Tuttavia è fantastico, una tempesta a ciel sereno anche per chi predilige il lato “strong” dei tabacchi inglesi.

 

Gawith Hoggarth Dark Flake

005-001-0013

Gawith  Hoggarth non ha certo bisogno di presentazioni. Nel mondo del lento fumo, della produzione dei tabacchi da pipa, rappresenta uno dei mari nei quali il naufragio non solo è dolce, ma addirittura sperato. L’arrivo in Italia di alcune produzioni della storica dinastia delle terre di Kendal, è stata a parer del sottoscritto (che non ha la possibilità di fare un salto oltre confine….) una fortuna oltrechè sperata. L’offerta è varia, dai soapy ai Virginia fino agli “strong”. Tra questi, il Dark Flake rappresenta tutto quello che ci si aspetta di trovare in un prodotto di tale tipologia.

Inizialmente non so perchè, ma in riferimento a tale prodotto, ero leggermente scettico. Forse perchè il tabaccaio me lo avevo presentato simile al Lakeland, suo cugino ( di secondo grado aggiungerei io), con quello strano aroma dolciastro e profumato che niente ha a che vedere con l’odore secco e rude di sigaro, che invece il Lakeland presenta. Comunque sia, la sua composizione, mi intrigava non poco.

All’apertura della latta, quello che più colpisce è il suo strano aroma : acqua di colonia. Assolutamente. Adesso, sapevo che a Kendal con  queste cose ci giocano : nel senso che le profumazioni stile inglese sono inconfondibili nei loro blend. Tuttavia, finchè non si prova, anzi finchè non ci si ragiona(!), è impossibile capire. Il Dark Flake ( come altri prodotti GH, Ennerdale in primis) si presentano al fumatore provinciale (quale io sono), come materia sconosciuta ed entusiasmante proveniente da lontane lande. Allo stesso modo nel quale, popoli lontani, furono sommersi dalle merci più assurde nella lontana era mercantile. “Diamine, una cosa da un altro mondo”, questo pensai alla sua apertura.

Ora che, il Dark Flake lo conosco abbastanza, sono pronto a descriverlo su queste povere pagine. Non mi ha mai abbandonato da quando è approdato in terra italica, quindi, ho avuto modo di intravederne l’essenza, la quale tuttavia è ancora sfuggente e forse sfuggirà ancora a lungo. Sia questa, però, la sua prima e doverosa comparsa su questo blog.

Ufficialmente in Italia Virginia e Burley. La casa produttrice ne dà la seguente descrizione ” …a blend of dark fired Virginias, and Indian air cured tobaccos. A full bodied smoke for the seasoned pipe smoker.” Non c’è che dire, interessante è dir poco.

In fumata, è tutto da scoprire. Lavorati un po’ i pezzettoni di fetta e fatto arieggiare un quarto d’ora, è pronto per essere caricato e fumato. L’accensione parte abbastanza bene, qualche fiammifero in più ( ma è risaputo…), un minimo di attenzione con il pigino, e si parte. Rotta verso la contea del Cumbria…

E’ un tabacco la cui composizione non lascia scampo : sapori duri, forti, tellurici. Si alternano a tratti, tuttavia, ad una profumazione lieve e mai invadente, per rifluire verso una forza torbata che per quanto mi riguarda, definir goduriosa è poco. Il refluire della profumazione nell’irruenza torbata, tanto improvvisa quanto attesa è libidine pura. La fumata, scorre così, lenta e tranquilla nell’alternanza della carezza e dello schiaffo. Potrei aggiungere molte altre sensazioni, ma preferisco tagliare corto, in rispetto dell’immediatezza con cui colpisce questo tabacco.

Il Dark Flake è così. Non molto complesso,  ma mai  semplice. A metà strada tra la contemplazione profonda e il tabacco per palati duri e voraci. Difficilmente comprensibile nel breve periodo, non mancherà di affascinare e stupire gli amanti dei nettari forti.